Gennaio, tempo di classifiche anche per il Giappone e per Kinema Junpo, la più antica (1919) e prestigiosa rivista cinematografica del paese, la cui “Best Ten” rappresenta da sempre il riconoscimento più ambito dagli autori nipponici. Le scelte di Kinejun solitamente sono considerate conservatrici, ma quest’anno si sono rivelate più audaci e meno legate al botteghino. A trionfare infatti è stato il cupo The Light Shines Only There, un film intimista e semi-indipendente girato da una donna, Oh Mipo (a Udine nel 2011 con Sabi otoko sabi onna): storia senza redenzione di un uomo – interpretato da Ayano Gō, vincitore del premio di miglior attore – che cerca di obliterare un’esistenza senza scopo tra sale pachinko e sesso casuale. Anche il secondo posto è occupato da una giovane regista, Andō Momoko, ma non si pensi a una tendenza generalizzata del cinema giapponese, ancora largamente maschilista. La sua opera seconda, il fluviale 0.5 mm. è un road movie di malinconica leggerezza su una ragazza senza lavoro, costretta per necessità a fare intima conoscenza col Giappone “geriatrico”. Straordinaria l’interpretazione di Andō Sakura, incoronata miglior attrice come nel 2012. Dopo due film “piccoli” troviamo invece un grande successo in patria, Pale Moon dell’ormai affidabile Yoshida Daihachi (The Kirishima Thing), storia di un’impiegata repressa pronta a tutto pur di restare col suo giovane amante.

Al quarto posto si piazza uno dei padri del cinema giapponese sperimentale, Obayashi Nobuhiko (regista del mitico Hausu), con Seven Weeks, nel quale la morte di un anziano antiquario porta alla luce una serie di misteri legati fra loro. Una posizione più in basso c’è Our Family, opera del regista più conosciuto da noi tra quelli in classifica, Ishii Yūya (The Great Passage) che confeziona il duro ritratto di una famiglia messa a nudo dalla malattia allo stato terminale della madre. Sesto è invece uno dei grandi vecchi del cinema giapponese, Yamada Yōji, autore della saga Tora san, che con The Little House torna alle atmosfere nostalgiche di metà novecento e ai drammi delicati che hanno contraddistinto l’ultima fase della sua carriera. Segue al settimo posto My Man di Kumakiri Kazuyoshi, disturbante rappresentazione dell’ambiguo rapporto tra una ragazza e il padre adottivo che si evolve negli anni. 100 Yen Lovedi Take Masaharu è invece un’altra storia di vita ai margini, dove forse la boxe servirà a una ragazza senza aspirazioni (ancora un’ottima Andō) a trovare la propria strada. Al nono posto The Voice of Water di Yamamoto Masashi tratta il tema, sempre attuale in Giappone, delle nuove sette religiose. A chiudere la Best Ten un ex equo: Yukihiko Nishino’s Love and Adventure di Iguchi Nami e A Samurai Chronicle di Koizumi Takashi.

Per recuperare questi titoli scordatevi le sale, i festival sono l’unica alternativa: il Far East di Udine ne proporrà sicuramente alcuni, probabili, visti i precedenti, i film di Oh, Yoshida e Ishii, come è possibile che qualche altro titolo spunti in festival medio-grandi (Pale Moon era a Torino lo scorso novembre). Buona caccia!

Scritto da Eugenio De Angelis.