Presentato in Concorso a Venezia 74, Tre manifesti a Ebbing, Missouri segna l’esordio in una produzione americana di Martin McDonagh, sceneggiatore e regista britannico di origini irlandesi, al suo terzo lungometraggio per il cinema. Il film, che si avvale delle eccellenti interpretazioni di Frances McDormand, Sam Rockwell e Woody Harrelson, ha messo d’accordo pubblico e critica del Lido con un sorprendente mix di dramma e umorismo, meritando l’Osella per la Miglior Sceneggiatura.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri

Ambientato in un’immaginaria cittadina del Sud degli USA, Tre manifesti a Ebbing, Missouri si apre con un atto di ribellione all’immobilismo del contesto di forte impatto simbolico: i tre manifesti sono il mezzo con il quale una madre, Mildred (Frances McDormand), in cerca di giustizia dopo lo stupro e omicidio della figlia, inizia la sua battaglia personale contro le forze dell’ordine locali, mettendone in discussione l’operato dopo mesi in cui le indagini sul delitto sono ancora a un punto morto.

Il folgorante incipit ci introduce in un microcosmo in cui il maschilismo, il razzismo e l’omofobia sono ancora altamente diffusi e tollerati, se non praticati, della stessa polizia, e nel quale la sfida della madre innesca la reazione che porta allo scoperto tutte le debolezze di una società incancrenita nei pregiudizi. Ciò che rende la vicenda particolarmente interessante e niente affatto prevedibile sono gli sviluppi cui quell’azione porta nei riguardi di tutto il paese, a cominciare dallo sceriffo Willoughby (Woody Harrelson), sboccato e apparentemente indolente: in questo gioca un ruolo decisivo la grande abilità di McDonagh nel tratteggiare personaggi a tutto tondo, capaci di uscire dallo stereotipo per rivelare qualità nascoste e giungere a decisioni inaspettate.

Nulla è scontato in questo dramma sudista scritto e diretto con mano felicissima, che sembra aver appreso bene la lezione della classicità anche se, più che ispirarsi a Eastwood, siamo dalle parti di John Ford per l’asciuttezza del racconto e lo stoicismo e la testardaggine della protagonista (definita dalla stessa interprete quasi una versione femminile di John Wayne), che persegue la sua idea di giustizia da West contrapponendosi a un sistema ostile e inconcludente, con il ruolo della stampa come alleato a rischio (come non pensare, in questo, al capolavoro L’uomo che uccise Liberty Valance?). Denotano al contrario sensibilità europea il dubbio che McDonagh insinua sulla valenza catartica della vendetta come reazione compensativa alla perdita e l’umanità che il regista concede a quasi tutti i protagonisti della vicenda, compreso quello in apparenza più abietto, il vicesceriffo Dixon, alcolizzato, violento e mammone, magnificamente reso da uno straordinario Sam Rockwell.

Capace di un’empatia rara nel cinema hollywoodiano contemporaneo, Tre manifesti a Ebbing, Missouri, pur avvalendosi di sequenze di forte impatto drammatico (il pestaggio nel pub con The Night They Drove Old Dixie Down cantata da Joan Baez in sottofondo è da antologia), risulta particolarmente gradevole perché stempera il suo forte senso morale, che non cade mai nel moralismo, con un umorismo nero alla Joe R. Lansdale sempre sagace e mai fuori luogo, di cui si rende principale interprete l’arguto personaggio di James, un inedito Peter Dinklage con banana e baffoni.

Davide V.Ilaria D.