Inserito a sorpresa nel Concorso di Venezia 76, Joker di Todd Phillips, con Joaquin Phoenix, non delude le aspettative. Anzi, supera ogni più rosea previsione e rende onore alla scelta della Biennale di includere un cinecomic nella più antica mostra d’arte cinematografica del mondo. Un segnale positivo, da un lato, per l’idea di base di ridurre la distanza ideale fra il cinema d’autore, da festival, e il blockbuster, di cui i film tratti dai fumetti rappresentano attualmente l’esempio più fiorente; dall’altro, per la dimostrazione che anche partendo da una base fumettistica possano nascere grandi opere cinematografiche, con idee forti di regia e di sceneggiatura, senza per forza uniformarsi al pur rispettabile modello Marvel, in cui la personalità dei singoli film deve passare sotto le forche caudine della continuity, della comicità forzata e del politically correct.

Joker

Nel raccontare la origin story di uno dei più iconici villain dell’universo DC, Phillips si discosta volutamente dalle varie genesi del personaggio raccontate su carta nel corso degli anni – il modello più vicino è, in qualche modo, la graphic novel The Killing Joke di Alan Moore e Brian Bolland – e realizza quello che, più che un adattamento fumettistico, è proprio un esempio di cinema per adulti perfettamente a sé stante, la cui fonte di ispirazione primaria sono le opere di Martin Scorsese uscite tra la seconda metà degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80. La Gotham City in cui si svolge la vicenda, infatti, altro non è che una trasfigurazione della New York degradata, in preda al crimine e alla crisi economica, di quel periodo – non a caso, alcuni dettagli suggeriscono che il film sia ambientato nel 1981 – e il suo protagonista una miscela tragica, disperata e delirante dei sociopatici borderline che popolano la filmografia del regista di origine italiana.

In questa versione, quello che diventerà Joker si chiama Arthur Fleck ed è un aspirante comico, affetto da disturbi psichici, che vive con la madre malata. Sogna di esordire in uno show televisivo ma, per guadagnarsi da vivere, si adatta a fare il clown per una squallida agenzia. Soffocato dalla miseria che lo circonda, subisce sul suo fragile, macilento corpo prepotenze, violenze, estremo dolore. Come se non bastasse, un disturbo neurologico lo costringe a ridere fuori contesto, specie nei momenti di massima tensione emotiva. Il precipitare degli eventi lo porta a sprofondare sempre più nell’abisso della follia, fino a spingersi a commettere crimini sanguinari, restituendo a quella società a cui non era riuscito a portare gioia e risate tutto il male che gli aveva inflitto.

Mai il Joker era stato raccontato con una simile, viscerale empatia. Fondamentalmente è una fusione all’ennesima potenza tra i protagonisti di Re per una notte e Taxi Driver, le due opere scorsesiane di riferimento, entrambi interpretati da Robert De Niro, non a caso presente in questo film nel ruolo del presentatore dello show seguito da Arthur e dalla madre (un personaggio quasi identico a quello impersonato da Jerry Lewis in Re per una notte). Un comico incapace di far ridere che si trasforma in una specie di vendicatore iperviolento. Ma in lui c’è anche molto de L’uomo che ride interpretato da Conrad Veidt nel classico del muto di Paul Leni, dietro il cui sorriso fisso e involontario si nasconde estrema sofferenza.

Joker

Ciò che rende la caratterizzazione di Joker così unica è però, ancor più che la sceneggiatura di Phillips, la straordinaria interpretazione di Joaquin Phoenix, che aggiunge un altro personaggio disturbato a una carriera in cui ha esplorato l’alienazione in tutte le sue forme. Dopo essersi sottoposto a una trasformazione fisica impressionante – paragonabile a quella di Christian Bale per L’uomo senza sonno – che lo ha reso oltremodo scheletrico, e avendo studiato nel dettaglio varie tipologie di malattia mentale, Phoenix è riuscito a imprimere nel personaggio un’umanità senza precedenti, fino a rendere facile, per lo spettatore, parteggiare per lui, soffrire per i suoi fallimenti, godere per la sua riscossa. Il suo Joker è diverso dagli altri che lo hanno preceduto, anche dalla versione apparentemente più simile, ovvero quello interpretato da Heath Ledger ne Il cavaliere oscuro: mentre quest’ultimo era un villain puro, agente del caos dotato di una lucidità e di una leadership fuori dal comune, quello di Phoenix è più un antieroe, un povero emarginato che diviene suo malgrado simbolo di rivincita in una società folle e malata.

In Joker c’è tutto: una perfetta ricostruzione d’epoca, riusciti riferimenti all’attualità per il ritratto di una società classista e priva di empatia verso chi soffre, interessanti scelte di regia (la sequenza nel salone dove si proietta Tempi moderni su tutte), un’evoluzione del protagonista raccontata nei dettagli e buone caratterizzazioni di contorno, fra cui la madre impersonata da Frances Conroy e la ragazza di cui Arthur si invaghisce, una Zazie Beetz dal sorriso meraviglioso. In tutto questo, fondamentalmente, appaiono quasi pleonastici, se non forzati, i riferimenti alla mitologia di Gotham, che accostano citazioni pure (anche dalla filmografia precedente) a riletture originali, e a tratti discutibili, fra cui un Thomas Wayne (Brett Cullen) raccontato da un punto di vista completamente inedito.

Difficilmente ci toglieremo dalla testa la tristissima risata patologica di Arthur, né le note (insanguinate) di That’s Life di Frank Sinatra: due momenti indimenticabili di quello che, al netto di qualche esagerazione, si può definire un grande film.

Davide V.Alice Casarini
9

Non siete a Venezia76? Il pass di Cinema Errante vi porta all’interno della Biennale Cinema 2019: restate con noi via Facebook, Twitter e Instagram per non perdere le recensioni e gli aggiornamenti in diretta dal Lido.