Sette minuti dopo la mezzanotte, vincitore del Platinum Grand Prize al Future Film Festival 2017, è uscito in sala un po’ in sordina, forse penalizzato dall’incasellamento nei generi di riferimento (young adult e fantasy con venature horror), che però trascende con la potenza emotiva dell’allegoria di un’adolescenza profondamente segnata dalla sofferenza.

Sette minuti dopo la mezzanotte

Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Patrick Ness, adattato dall’autore stesso, fra le voci più apprezzate della letteratura contemporanea per ragazzi. Il protagonista, il dodicenne Conor O’Malley (Lewis MacDougal), arranca travolto da problemi più grandi di lui, dal bullismo a scuola alla difficile vita familiare, con il padre lontano, l’algida nonna e soprattutto la madre con un cancro terminale (l’idea originaria del libro era dell’autrice Siobhan Dowd, che aveva cercato di usare la scrittura per affrontare la propria malattia).

Sette minuti dopo la mezzanotte si basa sullo stesso principio: attraverso il disegno e l’immaginazione, Conor trasforma il suo assordante carico emotivo in un gigantesco albero antropomorfo semovente, una sorta di mastodontico Groot tanto minaccioso quanto necessario che compare appunto alle 00:07. La creatura racconterà tre storie (le varie fasi dell’elaborazione del lutto, rappresentate attraverso un immaginario gotico da fratelli Grimm che mira a sottolineare che niente è mai come sembra) e pretenderà dal ragazzo un quarto racconto, ovvero “la sua verità”. Il punto di forza del film sta infatti nell’affrontare la malattia e le altre problematiche mettendo a nudo i sentimenti più profondi, anche quando l’etichetta imporrebbe di sublimarne la violenza.

L’albero infatti non è un daimon rassicurante, ma un mostro con uno spaventoso potere distruttivo (trasposizione delle emozioni represse di Conor). L’ottimo lavoro del team degli effetti speciali, una combinazione di animatronic e CGI con motion capture, prende vita attraverso la voce solenne di Liam Neeson (e del doppiatore abituale Alessandro Rossi). Perfetto anche il resto del cast, con una struggente Felicity Jones nei panni della madre che non vuole arrendersi, una glaciale Sigourney Weaver in quelli della nonna rigidissima ma lacerata dal dolore e soprattutto un bravissimo Lewis MacDougal, capace di trasmettere la rabbia, la sofferenza e il senso di colpa di Conor con una sorprendente maturità professionale.

Il regista Juan Antonio Bayona raccoglie l’eredità visionaria del maestro Guillermo del Toro (in particolare de Il labirinto del fauno) e bilancia realtà e immaginazione con l’abilità già mostrata in The Orphanage. I cali di ritmo sono compensati dalla buona commistione di live action e animazione, con tecniche diverse che partono da un suggestivo acquerello bidimensionale e si avvicinano gradualmente al 3D, a significare la progressiva fusione del reale e dell’immaginario nella mente di Conor. Il risultato finale è una pellicola di rara intensità che restituisce con necessaria prepotenza il fermento dell’età adolescenziale esasperato dallo straziante contesto.

Alice C.Thomas M.
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