Secondo il direttore Alberto Barbera, il filo conduttore di Venezia 72 è lo sguardo sulla realtà, storica e contemporanea. È infatti tratto da una storia vera il film d’apertura, Everest di Balthazar Kormakur, ricostruzione di una disastrosa spedizione internazionale sulla vetta himalayana del 1996. Dopo due aperture col botto – Gravity e Birdman – quest’anno si punta nuovamente su un film spettacolare sul piano visivo, ma abbastanza trascurabile nel contenuto. La messinscena della scalata è potente, grazie anche a un 3D che raggiunge notevoli risultati nelle riprese dall’alto della montagna e in quelle della tempesta, con inquadrature davvero mozzafiato, tuttavia il coinvolgimento emotivo che la vicenda dovrebbe generare si verifica soltanto a tratti, e solo grazie alla regia. A difettare è, soprattutto, una certa superficialità nella caratterizzazione che non ci fa affezionare a personaggi un po’ stereotipati, quando non addirittura abbozzati (particolarmente sottoutilizzato Jake Gyllenhaal). Una confezione sontuosa per un’opera che si eleva dalla media del survival movie solo per il comparto tecnico, ma spreca un cast sontuoso (Jason Clarke e Josh Brolin comunque in risalto) e approfondisce poco spunti interessanti, come la sfida ad altissimo rischio da parte di uomini incoscienti a una natura mai così minacciosa e vendicativa e il senso di impotenza e di disperazione che ne consegue.

Ben altra forza drammatica esprime il crudo Beasts of No Nation di Cary Fukunaga (in concorso), che racconta la sofferenza, l’orrore e la progressiva assuefazione alla guerra di un bambino africano di nove anni (il sorprendente Abraham Attah), costretto ad arruolarsi, dopo la morte di suo padre, in un esercito ribelle guidato da un leader carismatico quanto crudele. Una iniziazione alla morte dalla potenza visiva devastante, con picchi di violenza quasi insostenibile, ma mai gratuita, in cui il giovane cineasta nippoamericano – già regista della prima stagione di True Detective – dimostra grandi qualità di narratore per immagini (con lunghi piani sequenza nei quali la terra e il fango si macchiano del rosso del sangue) e un’assoluta padronanza del racconto cinematografico, senza cedere minimamente al buonismo della retorica hollywoodiana. Echi del viaggio all’inferno di Apocalypse Now si mescolano a suggestioni quasi herzoghiane (nel personaggio del Comandante, magnificamente interpretato da Idris Elba, un concentrato di paternalismo, perversione e megalomania) in un’opera sferzante, con la quale Netflix (che lo ha prodotto) entra ufficialmente nell’elite dell’arte cinematografica.

Altrettanto duro nel messaggio, ma molto più disteso nei toni, Klezmer di Piotr Chrzan, storia scarna ed essenziale, ambientata nella Polonia occupata dai Nazisti, in cui i rari barlumi di umanità di alcuni giovani si scontrano con l’avidità e l’ignoranza dei collaborazionisti dopo il ritrovamento di un ebreo ferito. Pregevole l’ambientazione nella foresta e buona la caratterizzazione, lento il ritmo, cadenzato dalla musica ebraica eponima.