Presentato in concorso al Festival di Cannes appena terminato, Youth è il settimo lungometraggio di Paolo Sorrentino. Accolto con qualche riserva dalla critica cinematografica in occasione dell’anteprima alla Croisette, il film è ambientato in un hotel di lusso immerso nelle Alpi svizzere, luogo di relax che ospita una clientela quanto mai eterogenea e originale. Un’ambientazione che mette in evidenza una volta di più lo straordinario talento visivo di Paolo Sorrentino e la sua capacità di costruire inquadrature spettacolari che sposano mirabilmente le sorprendenti scenografie di Ludovica Ferrario e la fotografia sopraffina di Luca Bigazzi.

Se la fantasia visiva di Sorrentino sembra non avere fine, ciò che lascia perplessi nel suo ultimo film è, ancora una volta, la sceneggiatura. Essa è strutturata su una serie di brevi sequenze indipendenti le une dalle altre, come fossero singoli episodi ambientati in spazi diversi della stessa location (l’albergo in Svizzera), ognuno con un proprio inizio e una propria fine. Un’impostazione decisamente ripetitiva che dimostra ancora una volta la fascinazione del regista per il videoclip, passione quest’ultima che ha personalmente ricordato in occasione della conferenza stampa di Cannes. I dialoghi, come sempre nel suo cinema, sono ricchi di frasi a effetto, massime sul mondo della recitazione, dell’arte musicale e, più in generale, sulla vita; ma si tratta di riflessioni estemporanee che il regista avrebbe potuto affidare a qualunque personaggio del suo film, tanto esse appaiono gratuite e slegate dal resto della narrazione. Così come belle frasi non determinano necessariamente una bella sceneggiatura, allo stesso modo la profondità delle affermazioni dei protagonisti di Youth non corrisponde a un’effettiva profondità dei personaggi, che al contrario vengono tratteggiati in modo piuttosto superficiale.

Nel cinema di Sorrentino i dialoghi perdono malauguratamente la loro funzione classica, ovvero quella di consentire allo spettatore di conoscere gradualmente il personaggio attraverso le parole che lo sceneggiatore gli affida. Quelli del regista sono dialoghi senza tempo né spazio, verrebbe da dire senza un personaggio. Le scene più riuscite sono quelle in cui lo spettatore osserva i personaggi da un punto di vista privilegiato, conoscendo in anticipo la loro storia. Come accadeva per Il Divo, ad oggi il suo film più riuscito, e come accade nel breve episodio di Youth dedicato a Maradona, senza dubbio il più divertente di tutto il film. Cinema che funziona veramente solo quando il personaggio c’è già, esiste prima e dopo il film, ma non nasce mai da esso.

Scritto da Michele Boselli.

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