Sorvolando sulle letture ipertestuali e biografiche e su Judd Apatow visto come esempio di un’inedita connotazione della figura dell'”autore”, non più inteso solo come regista ma come punto di riferimento di personaggi e opere a lui in qualche modo legate, si può trovare un filo conduttore tematico che unisce buona parte dei film prodotti dal cosiddetto Clan Apatow: la rappresentazione di un disagio, di un’inadeguatezza e di un più o meno esplicito disadattamento, e una corrente più o meno carsica di amarezza e di malinconia di fondo.

Una comicità, anche nei casi in cui si spinge maggiormente sul pedale della demenzialità e della trivialità, dal retrogusto amaro e malinconico, che diventa manifestazione della stonatura e del contrasto tra individuo ed esigenze del contesto che lo circonda: elemento essenziale e fondante del comico e della commedia che, in questa prima parte di secolo, proprio nella commedia apatowiana ha trovato la più adeguata manifestazione. Come scritto da Cabrini nell’editoriale pubblicato in queste pagine, c’è il disagio “di chi si ritrova adulto con un cervello da giovane“, incapace di adeguarsi a quello che è il naturale e obbligato evolversi delle stagioni della vita e che rimane aggrappato ai cimeli e ai feticci dell’adolescenza: cartina di tornasole di quest’ultimo elemento è proprio l’assoluta centralità nella comicità di parola (dominante su quella fisica) della cultura “pop” e “mediatica” – musicale, cinematografica e televisiva – e dei suoi simboli, connotazione più evidente di un’evoluzione interiore più o meno consapevolmente bloccata, insieme alla sensazione di amabile cazzeggio offerta dai dialoghi.

Amarezza e disagio presenti anche quando, apparentemente, i protagonisti alla fine sembrerebbero riuscire a scendere a patti col contesto, sempre però più come vittime che come vincitori, o perlomeno con qualche seria ferita da far cicatrizzare (Molto incinta, Superbad, Funny People, I Love You Man…). Questo discorso è evidente proprio nei film diretti dallo stesso Apatow (con Questi sono i 40 come esempio più memorabile e compiuto), ma ritorna con efficacia nelle opere di Nicholas Stoller, più fedeli allo schema della commedia sentimentale classica e nelle quali, attraverso il naturalismo dei sentimenti e le diatribe amorose, si dipinge un protagonista maschile disadattato sotto ogni aspetto (in particolare, Five-Years Engagement). E si ritrova anche in quel saggio di demenzialità funerea che è Facciamola finita di Seth Rogen, in cui l’autorappresentazione metacinematografica e il gioco delle parti tra attore e personaggio diventano quasi una presa di consapevolezza dell’inadeguatezza, e un divertito segno di arresa nei suoi confronti.

Scritto da Edoardo Peretti.