Irma Vep (1996) è un elegante esempio di metafilm, con il quale il regista Olivier Assayas riflette sullo stato del cinema di allora, in rapporto a quello di altre epoche e generi, attraverso la vicenda di una star di Hong Kong (un’autoironica Maggie Cheung nella parte di sé stessa) che viene ingaggiata da un cineasta francese per interpretare il remake del serial muto Les Vampires di Louis Feuillade.

Lo sguardo di Assayas si identifica, almeno in parte, nel fanatismo del regista cinefilo suo compatriota (un nevrotico Jean-Pierre Léaud), dalle tendenze maniaco-depressive, ossessionato dal cinema muto e convinto di poterne riprodurre nel presente lo stile e i meccanismi; ma anche, in parte, nello smarrimento dell’attrice cinese in trasferta parigina. Maggie Cheung, che recita per più di metà film indossando un’attillatissima tuta di latex nero, si dimostra eccezionale nel riprodurre sullo schermo i contrastanti sentimenti della protagonista, affascinata dal personaggio di Irma tanto da identificarsi con lei, ma fondamentalmente sperduta in un mondo che non conosce, e dal quale non ha ben chiaro se lasciarsi sedurre completamente o mantenere ancora un certo distacco emotivo. In giro per le strade di una Parigi buia e scura (a sottolinearne la natura di luogo sconosciuto ed enigmatico), la sensuale ma candida Maggie, pur esprimendosi in un inglese stentato, diviene l’oggetto del desiderio di uomini e donne, seducendoli involontariamente con il proprio fascino esotico, quasi a esprimere la fascinazione pseudo-erotica del regista per un cinema, quello di Hong Kong, vitale e ancora da esplorare, e per questo da ritenersi paragonabile alla purezza di linguaggio del cinema muto (ottime le sequenze del film nel film, che citano puntualmente Feuillade, e nelle quali la Cheung cerca di riprodurre le espressioni e la gestualità dell’interprete originale Musidora).

Ma dopo una stoccata al cinema militante degli anni Settanta, preso affettuosamente in giro nella sequenza della cena a casa di Mireille (Bulle Ogier), Assayas trova il tempo di ridimensionare anche lo stesso cinema orientale, demistificato nel dialogo fra Maggie e un giovane critico con la fissa di John Woo, e con l’entrata in scena di un nuovo regista (l’imbolsito Lou Castel), ben più cinico e pragmatico, la fascinazione sembra cedere il posto alla malinconia, chiudendo idealmente le porte a una concezione di cinema di cui è facile innamorarsi, ma ormai lontana dalla realtà. Resta comunque un film seducente e divertente, come la sua protagonista.

Davide V.
7 1/2