Col tour 2013/2014 si chiudono i festeggiamenti del ventennale di carriera di Max Pezzali, iniziati con la tappa 90.30.20 (agosto 2012, per i 90 anni di Riccione e i 30 di Radio Deejay) e con l’album Max 20 (giugno 2013). Le ventidue date di fine anno (quasi tutte sold out) e le otto extra del prossimo febbraio testimoniano la persistenza di un fandom fedele al cantante pavese, che cavalca al suo fianco “come fa un vero cowboy” sui sentieri polverosi della nostalgia, fuggendo dal “Fattore S” che infesta il West de noantri “fra deserto e prateria” (e nebbia padana), pronto a sentenziare “viso pallido, ti stai ingannando”.

E qui s’impone un disclaimer: voi tutti, sostenitori e detrattori, sapete benissimo di che tipo di musica stiamo parlando. La coerenza interna del corpus musicale e dell’identità del personaggio Max rimangono stabili da vent’anni, nel bene e nel male. Fra discorsi sul (potenziale) scarto fra il Max “reale” e la sua proiezione astrale nei media e sul palco o sulla semantica dei suoi testi, il vibe della performance dal vivo rimane costante, per un ritorno dell’identico che rassicura chiunque sia cresciuto fra “tappetini nuovi [e] Arbre Magique”. Chi proseguirà la lettura lo farà dunque a suo rischio e pericolo: si prevedono nubifragi di melodie orecchiabili, testi che “sull’amicizia e sulla lealtà ci [han] puntato pure l’anima”, vocali modulate e sha la la che hanno segnato una generazione, e infine la fata morgana di non avere “nessun rimpianto”, lasciandosi invece sommergere da un perpetuo amarcord agrodolce, come i dodicimila spettatori (consenzienti) dell’Unipol Arena di Casalecchio di Reno (Bologna) il 30 novembre.

Il paratesto del tour sancisce subito il frame of mind da adottare, con la promessa “solo successi” e la scelta (piuttosto infelice, va detto) di una locandina con il Max anni Novanta, mise da Dylan Dog e capigliatura folta, e il suo Doppelgänger odierno, cui gioverebbe un po’ di makeup effetto bonne mine. La dicotomia visiva è correlativo oggettivo del perpetuo tentativo di Pezzali di venire a patti col passare degli anni e di ricomporre il proprio io di ieri e di oggi nel presente atemporale della dimensione epico-fumettistica a lui cara. L’arma migliore per affrontare ogni tipo di soluzione di continuità rimane il ricorso agli Amici, ai piaceri semplici e al conforto del poter dire “non sono mai cambiato” ed “è il mio secondo tempo / però io mi sento come all’inizio dello show”.

Si cresce, si invecchia, ma in qualche modo si può orchestrare il proprio percorso sulla “strada che sale su, ripida e dissestata [che] chiamano età della ragione“. Dopo la cronistoria per immagini della vita di Max dai tempi ante-repettiani, ecco quindi una scaletta che toglie subito di mezzo “il nuovo”. Con un testo alla mano e una dose massiccia di sarcastici “uh uh uh”, l’autoironica “Ragazzo inadeguato” riassume le insicurezze di una generazione irrisolta, “un po’ fuori posto, un po’ sbagliat[a]” (sensazione certamente acuita dal contesto italiano, in cui “c’è sempre qualche cosa che non va va va va va”). Con “I cowboy non mollano” (accattivante country basso-lombardo) e la struggente “L’universo tranne noi” si esauriscono le tracce inedite del nuovo album, eccezion fatta per “Il presidente di tutto il mondo”, proposta più avanti con un Max in giacca e cravatta davanti a un podio da convention. I brani nuovi sfruttano appieno il quintuplo maxischermo alle spalle del cantante, con scenografie appropriate e testi da karaoke che ammiccano a un pubblico meno ferrato sul nuovo, in palese attesa dei successi promessi.

Con “Lo strano percorso” prende il via un’infilata di hit che fa cantare il pubblico per più di due ore, passando dall’effetto GPS di “Rotta per casa di Dio” all’iconografia pop degli anni Ottanta e Novanta che fa da sfondo a “Gli anni” (e come non commuoversi nel rivedere le immagini di Stand By Me e Beverly Hills 90210). Proseguendo con “Come mai” e “Sei un mito”, si approda ai fumetti di “Hanno ucciso l’Uomo Ragno”, all’intensa “Come deve andare” e agli assiomi fondamentali dell’universo pezzaliano, “La dura legge del gol” (punteggiata dalle immortali immagini della finale dei Mondiali 2006) e “La regola dell’amico”. L’anima collettiva dei ragazzi di provincia trova la sua catarsi in “Con un deca“, coronata da una pioggia di finte banconote con il volto filigranato di Max stesso.

La ricca setlist è intervallata dai megamix curati dal tech-man della band, Dj Zak, che permettono di recuperare qualche strofa di brani a metà fra l’autoironico e il leggendario come “Non me la menare“, “Te la tiri” e l’epica “S’inkazza (Questa casa non è un albergo)“, uscita quando le k, più che trademark da bimbiminkia, erano sintomo del “vorrei ma non posso” di un turpiloquio detto ma non scritto. Ed è lo stesso Max a far cantare al (gaudente) pubblico “stiamo andando a fanculo, sha la la”, in modo che il figlioletto non possa rinfacciargli di averlo pronunciato. Al piccolo Hilo è per altro dedicata una maglietta in vendita per raccogliere fondi per la ricerca sulla sindrome di Kawasaki, che si può curare (com’è stato nel caso del bimbo) soltanto se la si diagnostica in tempo (e che “per uno che ama le Harley Davidson sembra un po’ una presa per il culo”, dice Max, sacrificando l’effetto lo-dici-tu-non-io, ma per una giusta causa).

L’encore è all’insegna del romanticismo, con un medley che raccoglie “Nient’altro che noi”, “Ti sento vivere”, “Io ci sarò” ed “Eccoti”, seguito dai toccanti virtuosismi vocali(ci) di “Una canzone d’amore“. Chiude lo show “Sempre noi”, che lascia un po’ perplessi per lo scarto fra il video con J-Ax e la guest appearance sul palco di Federico Poggipollini, ma suggella inequivocalmente il mood del tour: “sempre noi, senza aver spento i nostri sogni mai.” E il pubblico non pare affatto disdegnare queste due ore di sogni accesi, soprattutto se a cucirli insieme è la voce argentina di Max, che, come scrive Giorgio Busi Rizzi, si distingue per “quella pronuncia nasale che fa risaltare ancora di più la distanza tra accenti metrici e accenti tonici”, permettendo al cantante di giocare con sinalefe, dialefe e cesura senza ostacolare il flusso della melodia. Una voce su cui spesso si sorvola nell’analizzare il “fenomeno 883”, ma che (come si evince dal confronto con i pur grandissimi cantanti che duettano nell’album Max 20) costituisce in realtà una delle marche più distintive e incisive del ventennale successo di Max Pezzali.

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