Il corso degli eventi è a volte sorprendente e un film, come La corona di ferro, concepito sulla base di ideali come la giustizia e la pace si ritrova a vincere la Coppa Mussolini,  antica madre del più selvaggio Leone d’oro, nel 1941 alla 9a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, quando l’Italia è già entrata in guerra. Goebbels, che assiste alla proiezione, non storce solo il naso ma si lamenta perché in Germania il regista sarebbe stato messo al muro. In realtà Blasetti, uno dei registi più legati al fascismo, non aveva nessun intento rivoluzionario o volontà di contestazione, avendo concepito il film nel 1939 quando Mussolini aveva dichiarato che l’Italia non sarebbe entrata in guerra. Ma quando il film venne terminato nel 1941 il clima era un po’ cambiato. L’autore ebbe comunque il merito di andare fino in fondo e di non tirarsi indietro, e si può quindi dar credito alle dichiarazioni  non belliciste che si possono trovare negli scritti e nelle interviste di Blasetti.

La storia è un miscuglio di fiabe e film (con personaggi e citazioni ripresi dalle più svariate fonti, come, tanto per fare qualche esempio, Tarzan, Marco Polo, Edipo re), tanto che i troppi elementi diventano alle volte ingovernabili e i personaggi risultano deboli e risucchiati da questo calderone. Il terreno su cui invece il film recupera punti è senza dubbio quello tecnico: il montaggio, i movimenti della macchina da presa, le scene di massa e gli effetti speciali dell’epoca, che permettono la scena di Massimo Girotti nella fossa tra i leoni durante il torneo per la mano della principessa (in una sorta di preistoria del green screen), donano forza e credibilità all’opera ancora oggi.

Le scenografie di Virgilio Marchi, poi, sono ricche e funzionali alla fiaba ambientata in un medioevo fantastico. La realizzazione tecnica mostra come a Cinecittà ci fosse un artigianato fervente e preparato, e si può parlare così di un prodotto che all’epoca si potè presentare a livello internazionale a testa alta. Un altro esempio è costituito dal modellino di tre metri per quattro della “Valle dei Leoni”. Questo luogo, seguendo l’alquanto classico intreccio del film, era stato scelto dal re per liberarsi del piccolo Arminio, figlio del fratello spodestato, ma invece di morire il ragazzo cresce come un piccolo Mowgli, e da adulto, inconsapevole della sua identità e guidato da una profonda rettitudine morale, ristabilirà giustizia e pace nel regno. Una volta che il protagonista esce dalla suddetta valle, entra in gioco questo modellino, che serve per mostrare il crollo delle rocce che la circondavano.  In un’intervista*, Elisa Cegani, una delle coprotagoniste della pellicola, ricorda anche come le maestranze avessero costruito l’imponente castello di Kindaor, reggia del re sanguinario, fino al quarto piano, e come per dargli ulteriore maestosità avessero montato un modellino con le guglie e le torri vicino alla macchina da presa in modo tale che in prospettiva l’immagine risultasse credibile.

Altri aneddoti curiosi circondano il film*: infatti durante le scene del torneo Osvaldo Valenti si prese una freccia vera sulla guancia, scoccata peraltro dallo stesso Blasetti, ma continuò senza troppe storie le riprese, e Girotti si beccò un morso dal re della foresta nella “Valle dei leoni”, alla faccia dell’actors studio.

Il tutto fu condito da un costo elevato per l’epoca: mediamente in quegli anni si spendevano 3 milioni di lire, mentre per questo film ne furono spesi 14, giustificati però dalla complessità del progetto.

*queste e altre informazioni si possono ritrovare in Salizzato C., Zagarrio V., La Corona di Ferro: un modo di produzione italiano, Di Giacomo, Roma 1985

Scritto da Anna Silvestrini.

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