Anche quest’estate non ci siamo fatti mancare quel pulviscolo di eventi dal discreto allo scarsissimo, musicali e non, che caratterizzano la routine vacanziera e quasi li abbiamo graditi: è facile essere più indulgenti quando si ozia tutto il giorno e si ha in mano un long island. Meno a fine agosto con la saudade settembrina alle porte. E con due eventi musicali forti a chiudere la stagione, entrambi con un profilo ambiguo, al contempo ricercate fucine di nuove idee e banali fenomeni di massa.

Notte della taranta contro I-Day sta per tradizione contro innovazione, vecchio contro nuovo? Ingannevole; l’uno e l’altro vivono per lo più di citazionismi sterili e pigrizia intellettuale, forti del riscontro in termini di vendite che questa impostazione può dare. Per fortuna restano delle nicchie di novità e freschezza: teniamocele strette.

Come il duo composto da Justin Adams e Juldeh Camara, in arte JuJu, uno chitarrista blues, l’altro cantante, musicista e poeta del Gambia che insieme a Ballakè Sissoko, alla Fanfara Tirana e ai Taiko Drummers hanno rivitalizzato lo show di Ludovico Einaudi, un tempo pianista mediocre, ora direttore artistico. Pur avendo dalla sua musicisti e cantanti di indubbia bravura nell’Ensemble Notte della Taranta, Einaudi, e con lui gli altri responsabili del Festival, non osano dal punto di vista del repertorio, nè degli arrangiamenti, confezionando un prodotto sornione, ideale per il turista curioso con tamburello fresco d’acquisto e per l’autoctono conservatore. Per fortuna un po’ di contaminazione riesce a rendere tollerabile anche l’ennesima versione di Lu core meu.

La storia non cambia molto sul versante Indie: gruppi che citano i 50’s, i 60’s, i 70’s, gli 80’s, i 90’s, si autocitano, si citano l’un l’altro, aspettano con ansia che passi un anno per poterne citare la produzione discografica con una ragionevole distanza storica. Perchè dobbiamo continuare a sopportare frontmen sbarbatelli vestiti da dandies? Kate Moss se li sarà pure meritati ma noi certo no. Perchè il gilet, la t-shirt sdrucita, l’occhiale strano, lo skinny jeans? Roba da rimanere paralizzati da un incontenibile horror vacui. Per quali meriti artistici i Kasabian possono ostentare tanta spocchia? E che senso ha più la definizione indie una volta che ha preso il significato di primo passo verso il mainstream?

Due eventi da ignorare? Tutt’altro. Da lì possono ancora venire le cose migliori: da una parte una tradizione che smetta di essere repertorio a cui attingere passivamente e si evolva nell’incontro con la contemporaneità e con culture musicali differenti; dall’altra gruppi più o meno giovani che pur ispirandosi al passato sappiano evolversi con originalità, sperimentando, mischiando generi e suggestioni, contaminando. E’ tutto ancora in gioco. E nell’attesa il 3 settembre, all’Arena Parco Nord di Bologna, ascoltiamoci gli Arctic Monkeys, gruppo di cui va almeno apprezzata l’indubbia crescita artistica dal primo fiacchissimo album, all’ultimo interessante Suck it and see.

Lontano dalla luce dei riflettori, dalle logiche commerciali e da Kate Moss è  facile si riesca ad abbassare lo sguardo sul foglio bianco e a scrivere e comporre qualcosa di veramente nuovo e vitale. In Music we trust.

Scritto da Barbara Nazzari.

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