Danis Tanovic, già acclamato regista di “No Man’s Land“, torna con “Cirkus Columbia” nella sua Bosnia-Erzegovina poco prima dello scoppio delle guerre jugoslave.

Si racconta del ritorno in patria di Divko Buntic, figlio di generale fascista, fuggito in Germania durante il governo di Tito. Abbandonati un tempo, con un ingombrante carico di rancore, l’est comunista, una moglie sconosciuta e un figlio inaspettato, Divko era approdato tra le accattivanti braccia del capitalismo. Un capitalismo che premia i più rancorosi con fortuna, successo e denaro.  Della borghesia capitalista ora ha tutti gli status symbols: una mercedes fiammante, una fidanzata  fragile e discinta, rotoli di marchi in tasca e il gatto Bonny (il compagno Mao, con lungimiranza, metteva in guardia dalle insidie nascoste nel rapporto con gli animali domestici). Tutto quello che ne viene è insicurezza, malinteso e vendetta.

Cirkus Columbia è una riflessione sul conflitto, quello interpersonale e il suo corrispettivo, interetnico o intereligioso che sia, la guerra. Il conflitto, sempre dettato dall’incomprensione, sempre nutrito di risentimento, serpeggia in ogni rapporto messo in scena: in primis tra i due coniugi Divko e Lucija, per vent’anni in attesa d’essere finalmente nemici aperti, recriminando uno l’appropriazione indebita dei beni, l’altra una castità inspiegabilmente autoimposta; tra l’ex sindaco titoista Leon e il nuovo sindaco Ranko, tra il figlio di Divko, il giovane radioamatore Martin, e l’amico gradasso Pivac e così via. Il comune denominatore resta la natura strisciante e ambigua dello scontro, mai basato sul confronto aperto. E’ pestaggio per Leon, sfratto per Lucija, missione punitiva nei confronti di Martin, accusato di favorire l’esercito jugoslavo, passando informazioni al Capitano Savo.

Così descritto, nelle tematiche, parrebbe un film particolarmente grave e cupo. L’impressione, durante la visione, è però tutt’altra: la recitazione enfatica, il carattere sopra alle righe di molti personaggi e la natura paradossale di alcuni episodi, come la comica ricerca del gatto Bonny, danno al film un sapore balcanico in senso “kusturicano”, col suo modo indiretto e surreale di parlare della guerra.

Convincenti le prove attoriali, volutamente eccessive, dei due veterani del cinema balcanico Miki Manojlovic e Mira Furlan, quella misurata e tenera del giovane Boris Ler e quella folkloristicamente variopinta dei personaggi di contorno. Inclassificabile la pur bellissima Jelena Stupljanin, a causa di un doppiaggio imbarazzante.

Con un andamento narrativo scorrevole e ben ritmato, “Cirkus Columbia” è un film che convince e coinvolge, dall’inizio alla potente immagine finale. Non un capolavoro né una pietra miliare ma certo un’opera apprezzabile e godibile che ci parla, ancora una volta (e non è mai abbastanza), delle origini banali dell’odio e della guerra e della possibilità di una redenzione. Che può esserci, catartica, su di una giostra, memoria di bambino.

Scritto da Barbara Nazzari.

Continua a errare con noi su Facebook e Twitter per essere sempre aggiornato sulle recensioni e gli articoli del sito.

Chiara C.
6