Passata la sbornia della 72^ Mostra, proviamo a fare qualche considerazione su quanto visto (e non visto) al Lido di proveniente dal Far East. Come già annunciato in conferenza stampa la pattuglia asiatica non è stata delle più ricche: per la prima volta da parecchio tempo, infatti, Giappone, Corea del Sud e Hong Kong non hanno trovato film che li rappresentassero nella selezione ufficiale (Concorso, Fuori Concorso e Orizzonti).

Sicuramente i fan del cinema dell’Asia orientale non hanno avuto molto di cui festeggiare, ma la colpa, a detta dello stesso direttore Barbera, è da imputare al fatto che i titoli proposti non fossero all’altezza. E’ altrettanto vero che tra i nomi pesanti fosse rimasto solo quello dell’habitué Sono Sion con The Virgin Psychics, ennesimo divertissement che, dicono, fosse però meno riuscito di quel Why don’t you play in Hell? presentato proprio a Venezia. Sicuramente non ha giovato che le nuove opere dei registi di maggior richiamo fossero pronte già per il festival di Cannes, ma assenze come quella di Hong Sang-soo, poi vincitore del Pardo d’Oro, lasciano un po’ di amaro in bocca.

Consoliamoci allora con ciò che è passato sugli schermi di Venezia; solo cinque film, ma tutti di buona qualità. Quello che ha destato maggiore attenzione tra i critici è stato, a ragione, anche l’unico in Concorso, Behemoth (Cina). Il documentario di Zhao Liang si colloca infatti sulla scia ideale di illustri predecessori come Jia Zhang-ke e Wang Bing, in grado di descrivere con immagini potenti ed evocative la condizione dei minatori al confine con la Mongolia e il problema delle città-fantasma. Zhao ha l’intelligenza di relegare la parola a rare citazioni – riadattate – dell’Inferno dantesco e lasciare che siano i volti scavati, i paesaggi deturpati, le macchine “infernali” a dare la dimensione della catastrofe. Non meno emozionante, almeno per i suoi tanti fan, è il (non) film di Tsai Ming-liang, Afternoon (Taiwan), una (non)conversazione lunga due ore tra il regista e Lee Kang-sheng, una dichiarazione d’amore per quello che ormai è più di un attore-feticcio. Interessante anche Tharlo (Cina), con il quale Pema Tseden continua a confrontarsi con le problematiche della minoranza tibetana in Cina, attraverso una classica storia di scontro tra modernità e tradizione. Guan Hu è tornato invece a Venezia con il film di chiusura Mr. Six (Cina), un solido prodotto di genere, oscillante tra commedia e action, che recupera gli stilemi di Hong Kong portandoli sul continente. Dal regista dell’affascinante Forbidden Door, Joko Anwar, ci si poteva invece aspettare di più, ma il suo A Copy of My Mind (Indonesia) rimane comunque un’interessante incursione negli anfratti più oscuri del paese.

Nonostante il bilancio qualitativamente positivo, emerge chiaramente come quest’anno la Mostra abbia preferito concentrarsi su altre cinematografie “esotiche”, in particolare quelle sudamericane: una scelta che alla fine ha ripagato i programmatori, visto che per la prima volta Leone d’Oro e d’Argento hanno attraverso l’Atlantico per prendere la via dell’America Latina.

Scritto da Eugenio De Angelis.