Album 2013: in questo primo scorcio dell’anno diverse son state le uscite connotate da un elevato livello qualitativo, da opere prime in grado di stuzzicare e non di poco l’attenzione (vedi i già trattati Foxygen e Christopher Owens) a ritorni che hanno del clamoroso. Come non parlare infatti in questi termini del nuovo disco degli enormi My Bloody Valentine, a 22 anni di distanza dal capolavoro Loveless.

In molti si son chiesti e ancora si chiederanno se ne valeva effettivamente la pena e la risposta pare essere un sì convinto. Il risultato rischia di far impallidire migliaia di giovani bands ancora alla ricerca di un suono che sia veramente personale e non mera riproposizione di materiale già noto. Ebbene, mbv (questo semplicemente il nome del terzo album di Kevin Shields e sodali) non sarà forse la rivoluzione che era stato nel 1991 Loveless, ma riesce a risultare più che convincente e al tempo stesso familiare. Familiare perché nel frattempo il suo importante predecessore è cresciuto fino a sedimentarsi nella coscienza di tutti quelli che hanno a cuore la musica; qui però c’è un di più, e quel di più è farina del sacco del perfezionista Shields, sorta di novello Brian Wilson alle prese con dissonanze, rumorismi e voci celestiali. Se She found now (ed in generale il primo trittico di canzoni) costituisce ponte temporale con l’album-monstre di cui si diceva, da Is this and yes si aprono nuovi scenari. Più eterei, finanche eleganti e pop –in maniera non convenzionale, chiaro- come ad esempio succede in New you. La parte finale vira per contro verso nuove fantastiche ricerche sonore, dalla cavalcata shoegaze di In another way alla siderale e folle Wonder 2. Chapeau.

Altro gruppo in grado di regalare, a intervalli minori di tempo, nuove pagine musical-poetiche degne di nota è quello dei Low. La band del Minnesota, con Jeff Tweedy in cabina di regia, licenzia probabilmente con The invisible way la sua uscita migliore dai tempi di The Great Destroyer (2005). Non che Drums and guns ed il più recente C’mon fossero cattivi dischi, tutt’altro; qui però la sensazione è che tutto sia più a fuoco, dai brani più rarefatti a quelli più spigliati. Merito certo di Mr. Wilco che, senza snaturare l’anima slo-core della band, conduce il sound verso territori più squisitamente alt-country, territori peraltro in cui i chicagoani sono indiscussi e insuperati maestri. Dall’opening Plastic cup alla più classica Amethyst, o ancora dallo struggimento di Waiting alla frontiera dipinta in musica di Four score, l’impatto sull’ascoltatore è forte. Con alcuni piccoli capolavori come la ballata So blue, in cui il pianoforte sottolinea il cambio di ritmo, oppure la popsong Just make it stop in odor di primi Galaxie 500. Per non parlare poi di On my own che, con la sua coda strumentale distorta, si riallaccia proprio ai migliori Wilco. Disco da consumare.

Da una band-certezza ad un’altra: gli Yo La Tengo regalano il consueto disco (Fade) da 7 fisso in pagella. Nessuno più gli chiede i dischi della vita, chè quelli già ci son stati. Semmai stupisce ogni volta di più come il terzetto di Hoboken, pur fedele alle proprie coordinate e ad un mondo di ascolti intelligenti, non sbagli un colpo. Un po’ come quegli studenti che non stanno seduti in prima fila per assecondare il professore, ma si posizionano in seconda, avendo dalla loro intelligenza da vendere. Per favore clonateli.

Un passo indietro (ma relativo) forse lo fa, a parer mio, Nick Cave. Non si può parlar male del Re Inkiostro, ci mancherebbe, ma Dig Lazarus dig m’era parso più convincente rispetto a Push the sky away. Più vario se non altro, e dopo un inizio notevole la formula mostra un poco la corda.

Album da applausi decisi è invece Pale green ghosts di John Grant. Tra elettronica, che segna subito il passo con l’apertura affidata alla title-track, e certo folk intimista ed elegante, si ricorre ad arrangiamenti ora scarni ora più magniloquenti come nelle sontuose GMF e It doesn’t matter to him.

Vengono a tratti alla mente certi Magnetic Fields alle prese con le loro 69 canzoni d’amore ma in generale diverse sono le fonti cui si accinge per giungere ad un risultato molto personale. Dal synth anni 80 (con in aggiunta un pizzico della liquidità Atlas Sound) di You don’t have to al rimando agli LCD Soundsytem che si può apprezzare in Sensitive new age guy. In Ernest Borgnine la confessione della propria sieropositività si accompagna ad un sax in grado di conferire fascino notturno e sofferto mentre I hate this town è ottimo esempio di pop colto à la John Cale.

Infine, da devoto del vangelo secondo gli Smiths, posso dire di aver trovato un po’ noiosetto il disco del pur grande Johnny Marr?

Scritto da Fabio Plodari.

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