A Royal Weekend, diretto da Roger Michell e dominato da un Bill Murray in splendida forma, è uno dei casi ormai sempre più frequenti in cui la distribuzione italiana ha deciso di sostituire il titolo originale con un altro titolo in inglese. La strategia funziona sicuramente meglio del solito, ma sposta troppo l’attenzione sulla coppia dei reali d’Inghilterra (complice anche la fuorviante presentazione del film come “il degno seguito de Il Discorso del Re“). Il titolo originale Hyde Park on Hudson offre invece una resa molto più efficace della stridente giustapposizione del solenne Hyde Park e dell’americanissimo Hudson (fiume che attraversa lo stato e la città di New York), esplicitando la dialettica tra opposti che costituisce uno dei temi principali del film.

La trama ruota, infatti, attorno a un cruciale weekend di giugno del 1939, nel quale il re e la regina d’Inghilterra, Giorgio VI ed Elisabetta Bowes-Lyon, fecero visita al Presidente degli USA Franklin Delano Roosevelt (FDR, per soddisfare l’acronimofilia americana) per chiedere il suo sostegno militare ed economico. Re Giorgio, in effetti, è proprio il personaggio ormai cristallizzatosi nell’immaginario collettivo grazie alla straordinaria interpretazione di Colin Firth, ma non si può certo considerare Il Discorso del Re come un vero prequel di questa pellicola. La conoscenza pregressa dell’ottimo film di Tom Hooper può servire magari a comprendere la balbuzie del re (stavolta interpretato da un discreto ma non folgorante Samuel West), che qui però è tratto costitutivo soltanto del personaggio e non dell’intera trama.

Molto più fondante è, appunto, il rapporto fra il Vecchio e il Nuovo Mondo, fra i reali portatori del vessillo della tradizione e delle buone maniere (nonché dei leggendari completi in colori pastello che trasformeranno poi Elisabetta II nel meme di una pin-up Pantone – si veda l’immagine in calce) e la coppia presidenziale, moderna, liberale e tutt’altro che preoccupata dalla formalità, tant’è che FDR ed Eleanor vivono in case separate. La questione, che scandalizza i coronati britannici ancor più del toponimo quasi irriverente (“Dovevate proprio chiamarlo Hyde Park?”), costituisce lo spunto per la componente biopic, altro pilastro portante della struttura della pellicola.

Bill Murray dà vita a un FDR tanto carismatico e autoironico, quanto volubile ed estroso; il Presidente ama, infatti, prendersi lunghe pause dalla vita lavorativa (e coniugale, per quanto di circostanza) andando a spasso con Daisy, lontana cugina arruolata per aiutarlo a combattere lo stress e la tensione. Per nulla frustrato dalla propria disabilità, FDR porta in giro la ragazza sulla propria auto modificata per la guida con le sole mani, esplorando la suggestiva e rilassante campagna dello stato di New York.

Dal canto suo Daisy, pesce fuor d’acqua come l’omonima controparte di Downton Abbey, si rivela presto capace di stare al gioco e di prendere in mano la situazione, per così dire, ma senza mai scuotersi di dosso l’aura impacciata e spaesata da ragazza di campagna. Laura Linney indossa vestiti inadeguati accessoriati con un sorriso timido e uno sguardo spaurito, plasmando un personaggio molto umano che non ha mai davvero occasione di trasformarsi in una Vera Donna, proprio perché la sua unicità agli occhi del Presidente viene sottolineata e negata al tempo stesso, per tutta la durata del film.

Il maggior pregio della pellicola sta, infatti, nel tono schietto e scanzonato con cui viene presentata la figura di FDR, proprio attraverso la voce narrante di Daisy. Se all’epoca il Presidente era necessariamente dipinto come unico possibile salvatore dell’America piegata dalla Depressione, e pertanto modello di virtù e statuaria presenza virile (tanto che si glissava apertamente sui suoi problemi motori), A Royal Weekend sceglie invece di recuperare la dimensione della fragilità e della fallibilità umana, ma lo fa con dialoghi ironici (“Mi perdoni se non mi alzo!”) coadiuvati dalla notevole performance di Bill Murray, più che mai padrone del proprio corpo e della propria mimica facciale.

Ben riuscite anche le interpretazioni di Elizabeth Wilson, volitiva madre del Presidente (“Per nessun motivo serviremo al re e alla regina d’Inghilterra un COCKTAIL!”) e soprattutto di Olivia Williams, che vanta non soltanto una sorprendente somiglianza con la vera Eleanor Roosevelt, ma anche una verve degna della leggendaria First Lady, perfetto contraltare femminile del marito come punto di riferimento per la popolazione degli anni Trenta. Il ping-pong fra i personaggi principali crea così una commedia spassosa, ma anche misurata, che non ambisce a diventare né una laugh fest, né un blockbuster epocale, ma diverte ironizzando senza timore sui “vizietti” d’alto rango così come sulla malattia e sulla guerra, perché, come giustamente sottolineò il vero FDR nel suo più celebre discorso radiofonico, “the only thing we have to fear is fear itself”.

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Antonio M.
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