Con Guest of Honor il regista e sceneggiatore Atom Egoyan si inserisce in uno dei filoni principali della 76sima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, inaugurato già in apertura con Le verità di Kore’eda: il rapporto tra oggettività, mistificazione e (ri)costruzione del reale attraverso il non detto e il trasfigurato.

Guest of Honor

La cornice del colloquio tra l’insegnante di musica Veronica (Laysla De Oliveira) e il sacerdote Greg (Luke Wilson) per preparare l’omelia del funerale del padre di Veronica, Jim (David Thewlis), conduce gli spettatori lungo un percorso sospeso tra la confessione e l’indagine: il mistero iniziale sul motivo per cui Jim ha chiesto di ricevere l’estremo saluto in una chiesa che non aveva mai frequentato non è che l’inizio di una concatenazione di rivelazioni a incastro che tingono di un giallo un po’ sbiadito quella che era iniziata come una gustosissima analisi delle idiosincrasie del protagonista.

Jim era infatti un ispettore dell’ufficio igiene addetto ai controlli sanitari nei ristoranti; l’ottima interpretazione di Thewlis, armato di valigetta e termometro da carne, ma soprattutto di smorfie eloquenti e gestualità tra il rituale e il maniacale, restituisce un personaggio vicino alla tradizione teatrale nordamericana, fra i commessi viaggiatori di Arthur Miller e gli agenti immobiliari di David Mamet. Scoprirne la quotidianità, vissuta tra il lavoro, la vedovanza e il prendersi cura del coniglio della figlia, lascia presagire una dimensione più cupa e nascosta che non tarda a rivelarsi e a innescare una catena di ribaltamenti.

Guest of Honor

La scarsa gestione del puzzle inficia tuttavia l’ottima premessa iniziale: se l’esplorazione del personaggio di Jim era il punto di forza della pellicola, Egoyan si lascia poi prendere la mano, dedicando troppo spazio e troppi (prevedibili) colpi di scena alla storia di Veronica. La donna ha infatti scontato una lunga detenzione in carcere per un crimine che non ha commesso, ma che ha volutamente sfruttato per espiare una colpa precedente, la quale a sua volta si collega ad altri aspetti del suo passato e di quello del padre. L’accumulo di rivelazioni finisce però per precludere l’immedesimazione con il personaggio e lasciare un senso di insoddisfazione per il tempo sottratto alla storia di Jim, che pure a livello diegetico si rivela fortemente influenzata dal tormentato rapporto tra padre e figlia.

La pellicola nel complesso è comunque godibile, sempre in bilico tra l’ironia e le scene raggelanti; significativo in questo senso è il topos del coniglio, che, come riassume il regista in conferenza stampa, “è animale di compagnia o carne da mangiare” (le orecchie fritte sono la specialità del ristorante armeno in cui si svolgono alcune delle scene clou, in cui spicca la spigliata proprietaria interpretata da Arsinée Khanjian, moglie del regista e sua collaboratrice abituale). Dispiace tuttavia per l’eccessivo fissazione con la matrioska di flashback e coup de théâtre, che fa vacillare una struttura in origine autoportante e dal grande potenziale tragicomico.

Alice C.Davide V.
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