La strada verso gli Academy Awards 2019 è ufficialmente iniziata, tra (poche) sorprese e (molte) conferme, compresi i Leoni d’Oro e d’Argento di Venezia 75. Sono infatti Roma di Alfonso Cuarón e The Favourite di Yorgos Lanthimos a guidare le nomination agli Oscar con 10 candidature ciascuno, incluse le candidature per le performance di Yalitza Aparicio e Marina de Tavira.

Seguono il film musicale A Star Is Born con Lady Gaga e la consacrazione del fenomeno culturale e politico Black Panther. Raccolgono consensi anche The Ballad Of Buster Scruggs dei fratelli Coen e First Man di Damien Chazelle, altri protagonisti della Mostra del Cinema.

L’appuntamento con i vincitori è fissato per domenica 24 febbraio al Dolby Theatre di Los Angeles senza il conduttore Kevin Hart, uscito di scena dopo le accuse di omofobia.

Roma Venezia 75

Roma: recensione

Alfonso Cuarón continua a inanellare successi veneziani con Roma, titolo che si riferisce al quartiere omonimo di Città del Messico, ma ha ha il respiro e la vastità di un impero. In una bilanciata fusione di toni epici ed elegiaci, di quotidianità e storia, il regista ricostruisce un universo profondamente femminile che rende omaggio alle donne che lo hanno cresciuto. La narrazione segue i personaggi, più che gli eventi: il fulcro gravitazionale è Cleo (Yalitzia Aparicio), domestica di una famiglia dell’alta borghesia, ma in parallelo la pellicola tratteggia anche la crisi della famiglia stessa e un’immagine della città che alterna poesia e violenza. A guidare il film è la dimensione della memoria, che spazia dalla ricostruzione fedele del quartiere e della casa d’infanzia del regista (con l’arredamento in buona parte originale) a un uso magistrale delle panoramiche e dei piani sequenza (evidenziati dal formato digitale in 65mm) alternati a primi piani e grandangoli. La casa si fa immensa, ingigantendo anche le figure che contiene, in particolare Cleo e la matrona Sofia (Mariana De Tavira): di fronte allo scarto tra un mondo ancora marcatamente patriarcale e la fuga dalle responsabilità dei personaggi maschili, le due donne sanno trovare una forza immensa a cui il Cuarón adulto offre un tributo personale e toccante. Il bianco e nero non offusca i ricordi, ma anzi ne sottolinea la potenza e il valore simbolico: memorabile la sequenza iniziale del lavaggio del pavimento dell’ingresso, costantemente minato dagli escrementi del cane di casa. Fondamentale anche la dimensione sonora: il Dolby esalta le risate dei bambini e la lingua indigena mixteca parlata dai personaggi, conducendo subito lo spettatore nell’intimità quotidiana della casa, ma anche i rumori assordanti della città e della storia (come il massacro di Corpus Christi), utilizzati come cassa di risonanza del microcosmo familiare. Roma, fra i candidati più papabili al Leone d’Oro, potrebbe essere il primo film Netflix a conquistare l’ambito premio, segnando magari l’inizio di una maggiore collaborazione con le sale cinematografiche in virtù del valore aggiunto del grande schermo per la fruizione di un film così ampio in ogni senso possibile. (Alice Casarini)

La favorita Venezia 75

The Favourite: recensione

Con La favorita Yorgos Lanthimos declina il suo sguardo cinico e inesorabile secondo i canoni del period drama, scegliendo come ambientazione la corte della regina Anna, nell’Inghilterra settecentesca. Un tripudio di grandangoli trasforma il set in un acquario barocco popolato da creature variopinte e irresistibili interpretate da un cast perfetto: a contendersi le grazie della regina (una strepitosa Olivia Colman, che non permette all’obesità e alla gotta di privarla dei piaceri terreni) troviamo Rachel Weisz nei panni della Duchessa di Marlborough ed Emma Stone in quelli della cugina Abigail, di un ramo decaduto della famiglia. Le due interpreti, ugualmente graffianti e spietate, si fronteggiano in una guerra costante senza esclusione di colpi, fra gozzoviglie, tiro al piccione e una battle of wits che arricchisce l’inglese dell’epoca con insulti ben lontani dal linguaggio aristocratico, forte della sceneggiatura caustica di Deborah Davis e Tony McNamara. I personaggi maschili, pur sostenuti dall’interpretazione calzante di attori come Nicholas Hoult e Mark Gatiss, servono principalmente a sottolineare la straordinaria performance delle tre protagoniste, in particolare di una Emma Stone che libera tutta la sua vis sarcastica con tempi comici impeccabili. Fra immensi corridoi kubrickiani e un’irriverenza feroce da Cruel Intentions, La favorita costituisce la versione più fisica e sfrenata della misantropia e della fascinazione per il grottesco che caratterizzano l’opera del regista greco. (Alice Casarini)

A star is Born Venezia 75

A Star Is Born: recensione

A Star is Born, terzo remake (verrebbe da dire respawn, a furia di nascite siderali) del classico del cinema musicale, segna l’esordio di Bradley Cooper dietro la macchina da presa, nonché la conferma delle doti recitative dell’attore. La storia segue due parabole inverse e incrociate: il rocker Jackson Maine, con una voce incisiva, melodica o ruvida a seconda delle necessità, ma sempre in grado di incantare folle oceaniche, scivola sempre più nell’abisso di alcol, droga, problemi familiari e auricolari, mentre l’insicura cantante Ally (Lady Gaga) comincia l’ascesa verso un successo stellare proprio grazie all’intervento (e all’amore) di Maine e alla sapiente gestione del pur inquietante manager Rez (Rafi Gavron). Se l’alchimia sentimentale e musicale della coppia funziona in modo soddisfacente, la performance recitativa risulta invece quanto mai sbilanciata: a un Cooper intenso e commovente si affianca una Lady Gaga talmente impegnata a interpretare prima una fanciulla pavida e anonima e poi la versione edulcorata di se stessa da risultare forzata e innaturale, nonostante l’innegabile potenza canora adatta al ruolo e ai duetti con il co-protagonista. A penalizzare il risultato complessivo si aggiunge la straziante lunghezza della pellicola, dove i suoi 135 minuti stemperano la pregnanza delle scene clou dilatando la narrazione con inutili rimpalli. La duplice prova di Cooper, compresa la buona fusione registica di melodramma e concert movie, finisce quindi annacquata tanto dall’elefantiasi narrativa, quanto dallo sbilanciamento della resa attoriale. (Alice Casarini)

Black Panther

Black Panther: le donne di Wakanda

È una stagione d’oro per il Marvel Cinematic Universe: dopo le sperimentazioni futuristiche-kitsch di Thor: Ragnarok (probabilmente il più divertente e psichedelico film Marvel di sempre) arriva ora sugli schermi uno dei titoli più attesi in assoluto: Black Panther.
Il pubblico ha fatto la conoscenza di Re T’Challa (Chadwick Boseman, eccezionale) e del regno di Wakanda in Captain America: Civil War dove il nostro eroe cercava di vendicare l’assassinio del padre Re T’Chaka alleandosi con TeamIronMan per poi dare rifugio ai ricercati Captain America e Bucky – Winter Soldier – Barnes sul finale.
Black Panther ci trasporta quasi immediatamente nel regno di Wakanda subito dopo gli eventi di Civil War. T’Challa sta per essere incoronato re di questo regno africano nascosto che – grazie a un fortunoso asteroide – è patria dell’unico deposito al mondo di vibranio, il metallo più forte esistente in natura, con proprietà eccezionali che hanno permesso a Wakanda di prosperare da un punto di vista economico e scientifico-tecnologico più di ogni altro paese, riparata dagli occhi del mondo da uno scudo di vibranio che nasconde alla vista esterna i suoi tesori. [continua a leggere…] (Lucia Tralli)

The Ballad of Buster Scruggs Venezia 75

The Ballad Of Buster Scruggs: recensione

Con The Ballad of Buster Scruggs, i fratelli Coen tornano al genere western da loro già esplorato ne Il Grinta e, in parte, in Non è un Paese per vecchi. Prodotto da Netflix e realizzato, stando alle dichiarazioni degli stessi registi, secondo il modello italiano degli anni ’60 e ’70 (tipo Boccaccio ’70), The Ballad of Buster Scruggs è un film antologico costituito da sei episodi, sei storie di frontiera tratte da altrettanti racconti scritti da Ethan Coen nell’arco di vent’anni, molto diversi fra loro nel tono e nel contenuto, e uniti dal filo conduttore della lettura di un immaginario libro illustrato che li raccoglie tutti. Il primo, che dà il titolo alla raccolta, è un omaggio grottesco ai film di cowboy canterini alla Roy Rogers, con l’aggiunta di omicidi pulp e continue rotture della quarta parete da parte del protagonista (il menestrello pistolero interpretato da Tim Blake Nelson); il secondo riprende l’ironia e il cinismo dello spaghetti western con la vicenda di uno sfortunato rapinatore di banche (un James Franco con la faccia giusta); il terzo riporta ai tragici freakshow raccontati da Tod Browning con la storia di un imbonitore girovago (un Liam Neeson mai così negativo) che esibisce un performer privo di arti; il quarto è un’elegia che sembra guardare a Peckinpah, seguendo un anziano ma irriducibile cercatore d’oro (un Tom Waits irsuto come Jason Robards jr); il quinto, incentrato su una ragazza (Zoe Kazan) che si unisce a una carovana, ha un respiro quasi fordiano, con tanto di schermaglie amorose e attacchi indiani; il sesto, infine, che si svolge su una diligenza e ha per protagonisti cinque personaggi (fra cui una vedova impersonata da Tyne Daly) impegnati in brillanti scontri verbali, è un po’ Ombre rosse intinto nel sarcasmo di The Hateful Eight, ma con un sottotesto macabro. Difficile trovare un tratto comune nei sei episodi, differenti anche nella lunghezza, se non l’ironia crudele del destino che incombe su praticamente tutti i personaggi, colpendoli in maniera indiscriminata e beffarda, e l’evidenza che i Coen e i loro attori (con Nelson e Waits nettamente in risalto) si siano divertiti un sacco, forse più degli spettatori stessi, che comunque possono uscire dalla proiezione col sorriso sulle labbra, dopo aver assistito a uno spettacolo cinematografico di ottima qualità, visivamente raffinatissimo, intriso di umorismo nero ma anche di malinconia, e mai del tutto cinico. (Davide Vivaldi)

first man venezia 75

First Man: recensione

Dopo aver sferzato lo spettatore a suon di percussioni con Whiplash e averlo abbagliato con lo scintillio di La La Land, l’enfant prodige americano-canadese allarga il proprio orizzonte dalla city of stars alle stelle vere e proprie con First Man, incentrato sulla figura di Neil Armstrong. La pellicola tratteggia gli anni dal 1961 al 1969, evidenziando il lato politico della space race spesso celato dietro l’irresistibile attrazione del cosmo. Come scherza Ryan Gosling durante la conferenza stampa, citando le origini canadesi sue e del regista, First Man è ben lontano dal tripudio di americanness che ci si potrebbe aspettare. L’allunaggio è “one giant leap for mankind”, ma senza il celeberrimo posizionamento della bandiera a stelle e strisce: a dominare la narrazione non è il trionfo sulle avversità, come per esempio in Apollo 13, ma il confronto fra l’uomo e i limiti dell’esistenza. Lo sguardo è incerto ed esitante, costantemente pervaso dalla consapevolezza dell’impotenza umana di fronte agli incidenti, alla malattia e alla morte. Ne sono simbolo i riflessi sui caschi degli astronauti e sugli oblò, che, coadiuvati dall’abbondanza di soggettive, delineano un gioco prospettico tra terra e spazio, tra dentro e fuori, tra fragilità umana e spinta al superamento dei confini. Gosling dà vita a un Armstrong umile e tormentato, segnato dai numerosi lutti e provato dal suo stesso Streben verso l’eccellenza. L’eroico traguardo resta in secondo piano rispetto al senso di inadeguatezza nei confronti della moglie (un’ottima Claire Foy che scongiura il rischio dell’effetto patinato anni Sessanta) e dei due figli, metafora vivente dell’ambiguità dell’esplorazione spaziale, tra fascino e timore. La colonna sonora del fido Justin Hurwitz, mai realmente trionfale, è un perfetto contrappunto per la dimensione intimista e spesso claustrofobica che mira a restituire il lato umano di una delle più grandi imprese del XX secolo. (Alice Casarini)

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