L’estate sta finendo, Venezia è alle porte, e in quelle poche sale d’agosto libere da squadre suicide e draghi invisibili, fa capolino un film argentino il cui recupero era doveroso: Il clan, di Pablo Trapero, Leone d’argento alla scorsa kermesse del Lido. Parte di quella valorizzazione del cinema latinoamericano che ha caratterizzato Venezia 72 e che ha avuto il suo apice nel Leone d’oro a Ti guardo di Lorenzo Vigas, Il clan è un gangster movie a sfondo politico incentrato su autentici fatti di cronaca nera che insanguinarono l’Argentina dei primi anni ’80, appena uscita dalla dittatura militare ma ben lungi dal fare i conti con i crimini da essa commessi.

È in questo contesto che agisce il clan Puccio, in apparenza una normale famiglia piccolo borghese composta dal padre commerciante, la madre insegnante e cinque figli ben inseriti nella società; in realtà, tutti complici di un racket di sequestri e omicidi organizzato dallo stesso capofamiglia con metodi appresi quando agiva per conto del governo. Il film racconta la vicenda dal punto di vista di Alejandro, uno dei figli, che gioca a rugby, si innamora di una ragazza completamente all’oscuro della situazione e sogna una vita onesta con lei, ma rimane invischiato nelle attività criminali pianificate dal padre Arquimedes, che costringe tutti i consanguinei a parteciparvi per dovere di famiglia.

Il ritratto di questa impresa familiare dei sequestri colpisce per l’efficacia nel mostrare la doppiezza dei personaggi e l’assoluta naturalezza con la quale rapiscono, minacciano e uccidono persone mentre accompagnano i ragazzi a scuola o praticano lo sport. Nessun membro del clan è innocente: né gli uomini, esecutori materiali dei delitti, né le donne, testimoni silenziose e inerti, in quanto tutti privi di coscienza critica. Un comportamento che rispecchia, secondo il regista, quello della società argentina durante e subito dopo il regime militare, che chiudeva un occhio di fronte a crimini contro l’umanità e alla più disumana violenza, perpetrati con la scusa del mantenimento dell’ordine, nascondendosi dietro a un progresso della società sudamericana che vedeva gli Stati Uniti come mito di riferimento (un po’ come si vede in Tony Manero di Pablo Larrain, estendendo il discorso alla situazione per molti versi analoga del Cile di Pinochet).

La fotografia vintage, l’utilizzo straniante nella colonna sonora di brani classic rock (fra cui Tombstone Shadow dei Creedence Clearwater Revival e Sunny Afternoon dei Kinks, che accompagna il prologo e l’epilogo) e un cast in parte, nel quale troneggia Guillermo Francella, attore molto noto in patria per i ruoli comici, nei panni per lui insoliti del pater familias glaciale e privo di rimorsi, contribuiscono a dare al film la forza di una grande saga d’epoca, capace di conciliare, con notevole padronanza, un’onesta denuncia civile e uno spettacolo avvincente e di facile fruizione anche da parte del pubblico internazionale.

Davide V.Edoardo P.
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