Prendo l’ascensore per il ventesimo e ultimo piano di un grattacielo a Yūrachuchō, vicino Ginza, e vengo catapultato in un mondo parallelo. Mi accoglie uno staff interamente giapponese che mi si rivolge con un educatissimo inglese. Mi guardo intorno spaesato: gli interni, l’ambiente, le foto alle pareti, tutto dà l’impressione di essere in un sogno/incubo colonialista, solo che qui la colonizzazione non c’è mai stata e gli otto anni di occupazione americana sono finiti nel 1952. No, non è un racconto di Murakami, si tratta del Foreign Correspondents’ Club of Japan (FCCJ) che, con un po’ di cattiveria, potrei definire la roccaforte dell’intelligencija wasp a Tokyo. Il Club organizza proiezioni, presentazioni di libri, conferenze stampa e dibattiti a uso e consumo dei giornalisti stranieri (anche se, prenotando, sono accessibili a chiunque), ma è soprattutto un rifugio dorato per giornalisti, diplomatici e professionisti occidentali che possono godere di una lussuosa sala da pranzo e di un fornitissimo bar, una rarità qui.

Vado per assistere a una delle “sneak preview” mensili di film al di fuori del circuito commerciale, spesso seguite da Q&A con i registi. L’occasione quindi è promettente nonostante l’impatto iniziale, ma le cose cominciano ad andare male non appena entrato nella “sala”, che tale non è. A fronte di una capienza di una cinquantina di posti infatti, lo “schermo” è un telo 3×2 posto su un cavalletto, così che devo spostarmi in continuazione per leggere i sottotitoli, cercando al tempo stesso di intuire che direzione prenderanno le teste di fronte a me. Il film dovrebbe essere un video-diario autobiografico incentrato su Fukushima, ma diventa ben presto un giro del mondo che vorrebbe far riflettere sulle conseguenze nefaste dell’uso dell’energia atomica. Nonostante l’evidente coinvolgimento nel progetto, però, non mi sembra che la regista sia riuscita ad andare oltre il garbato pamphlet anti-atomico. La cosa interessante è scoprire che si tratta di uno degli oltre 200 documentari che hanno per tema quel fatidico 11 marzo 2011, un numero spropositato in un arco di tempo così breve, spiegabile solo con l’effetto della diffusione del digitale in un paese ad alto tasso tecnologico, unito a una fiorente scena low budget.

Quando si riaccendono le luci arriva però la parte che più mi colpisce. I giornalisti presenti, che si suppone siano qui da anni e conoscano bene il paese, fanno infatti le stesse domande che farebbe qualsiasi persona non informata dei fatti e, ad aggravare il tutto, i loro commenti sono intrisi di un (retorico? ipocrita?) umanesimo che si esprime nell’attivismo passivo di slogan come “supportiamo le persone in difficoltà”, non molto distante dal tono del film stesso. Mi ritrovo così a pensare a quello a cui ho appena assistito in questo Club che sembra vivere isolato dal mondo-Giappone, mentre fuori dalla finestra, ironicamente, vedo a poche centinaia di metri la sede del principale quotidiano nazionale e, accanto, quella di una delle grandi major cinematografiche del paese.

Scritto da Eugenio De Angelis.