Albeggia, e lui fissa il mulino: la silhouette nera bruciata nel chiarore dell’orizzonte rorido. Possiede il dono dello sguardo, Mr. Turner, e la destrezza del pennello, anche più destro del padre, barbiere, che lo maneggiava con la schiuma da barba. Agile di polso, in realtà, anche quando palpa senza ritegno la fedele, affezionata e passiva servitrice. Questo è il pittore, “un gargoyle”, si definisce guardandosi allo specchio: e lui sì che ci vede bene. Squisita sensibilità, certo, ma anche la severità burbera del vecchiaccio dickensiano pronto a bofonchiare, incline al bicchiere di troppo, nemmeno inappuntabile nell’igiene – s’alza, poi subito gli stivali e via – e con qualche peccatuccio da rimuovere (le figlie ignorate, la madre abbandonata semi-impazzita). Questioni di chiaroscuro.

Nel tratteggiare gli ultimi anni dell’esistenza dello straordinario pittore della luce William Turner (1775-1851), Mike Leigh opta per un dimesso registro anti-eroico, cercando, attraverso l’immersione aneddotica per sketch, di non sublimare la leggenda del genio, né di caricare di troppi vezzi la figura dell’artista bisbetico. Se la discutibile condotta narrativa sembra sfilacciare le due ore e mezza di film, a riannodare con controllata forza drammatica l’opera ci pensa Timothy Spall, non a caso insignito del premio di miglior attore alla 67esima edizione di Cannes. Moderatamente sofferto, come lo sarebbe un inglese, ma non per questo privo di slanci passionali, l’interprete fa emergere del pittore una vitale carnalità fatta d’illuminazioni e recessi ombrosi.

Se non fosse per tutto il corporeo carisma di Spall, il film di Leigh naufragherebbe tra le cartoline della bellissima fotografia di Dick Pope, candidata agli Oscar e a buon diritto tesa ad assecondare l’umore visivo dell’opera di Turner, e la pellicola in costume: certo, infatti, Mr. Turner non difetta di brillantezza nel cogliere l’esprit di un’epoca – i rancori alla Royal Academy, l’entusiasmo per la scienza negli esperimenti della Sommerville, i prodigi della fotografia, gli sbuffi della ferrovia – ma forse proprio per quest’aria da Hogarth disimpegnato tende a rasentare la galleria di quadretti. Una biasimabile figura su tutti, quella del logorroico Ruskin: l’esteta che sa di artato, come tutto il lungometraggio. Non è l’accademia del biopic da panegirico, ma nemmeno l’illuminante capolavoro. Il meglio è nella luce radente di certi interni, invero più olandesi che inglesi (Vermeer citato quasi alla lettera), e il profilo basso di qualche bella suggestione, come nel finale, sospeso letteralmente e simbolicamente tra luce e ombra, a chiudere il poco sfavillante racconto di un appassionato tramonto.

Antonio M.Chiara C.Edoardo P.Thomas M.
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Scritto da Antonio Maiorino.