La sfida per Mario Martone era di quelle ambiziose, perché portare sul grande schermo vita e opere di Giacomo Leopardi poteva voler dire, da una parte, appiattirsi su una mera riduzione calligrafica, dall’altra, rischiare il ridicolo involontario per eccessiva foga. Forte però della messa in scena teatrale delle Operette morali leopardiane e reduce da un film anch’esso di ambientazione ottocentesca (Noi credevamo), il regista realizza con Il giovane favoloso un biopic esaltante che centra la giusta via di mezzo. Un’opera lirica ma non pietosa, istruttiva ma non didascalica, alla cui riuscita contribuisce la straordinaria interpretazione di Elio Germano nei panni del poeta.

Così come il giovane Giacomo si sente limitato nel segmento ambientato a Recanati, oppresso dalla provincialità del borgo natio e dalle morbose costrizioni familiari, anche il film di Martone parte contratto per poi liberarsi progressivamente, mentre il corpo di Leopardi/Germano subisce un processo inverso, ingobbendosi sempre più, fin quasi a spezzarsi. L’avvio è infatti eccessivamente teatrale, la macchina da presa è intrappolata negli angusti corridoi di casa Leopardi, e non aiuta l’impatto straniante con la messa in scena, sia per la recitazione impostata di alcuni interpreti, sia per la scelta di utilizzare un italiano desueto (ma filologicamente fedele ai carteggi leopardiani). Quando dieci anni dopo ritroviamo il poeta a Firenze, Martone può finalmente muoversi liberamente, tratteggiando con realismo ed efficacia la società dell’epoca e il profilo umano di un Leopardi che esce dai libri scolastici per farsi carne. Emergono la voglia d’essere amato e il pessimismo sferzante come lecito attendersi, ma anche la sua italianità ante litteram e l’incredibile modernità del suo pensiero politico e filosofico.

È però a Napoli, dove il regista partenopeo gioca in casa, che il film spicca definitivamente il volo. Qui l’opera offre gli spunti cinematograficamente migliori quando il realismo viene sabotato scientemente da incursioni oniriche e visionarie, alle quali contribuisce l’ottima colonna sonora affidata a Sascha Ring (Apparat), modernissima e straniante, a testimoniare la scollatura del poeta recanatese dal proprio tempo. A parte il potentissimo urlo silenzioso nella casa paterna, si concentrano infatti tutte nel finale napoletano le scene più suggestive: il perdersi di Giacomo nei quartieri popolari, la discesa nel bordello-inferno e il paesaggio apocalittico durante l’epidemia di colera. Il confronto con la natura maligna, impersonata da un’enorme statua dal volto materno, è l’unico momento nel quale Martone eccede e la recitazione di Germano passa la linea del grottesco.

Il finale dagli echi “malickiani”, con l’eruzione del Vesuvio e le parole de La ginestra in voice over, riconciliano però definitivamente con un’opera ambiziosa e importante, esempio raro di biografia che riesce a parlare del presente e del passato, rendendo al tempo stesso un omaggio non standardizzato alla vita e alle opere di uno dei più grandi poeti italiani.

Scritto da Eugenio De Angelis.

Eugenio D.Alice C.Antonio M.Davide V.Edoardo P.Giacomo B.Michele B.Sara S.
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