La trentunesima edizione del Torino Film Festival si è conclusa con un incremento del 31% degli incassi rispetto alla scorsa edizione, arrivando a 92.000 spettatori (contro i 75.000 del 2012). Impreziosito dalla straordinaria retrospettiva dedicata alla New Hollywood, che certamente ha dato una gran mano all’aumento di incassi e spettatori pur rischiando di oscurare l’offerta proposta dalle “novità”, il festival firmato Virzì/Martini è riuscito nell’intento di coniugare la ricerca e la sperimentazione con un tipo di cinema di qualità e più popolare e tradizionale, e di attirare così un pubblico più variegato e vasto. In quest’ottica si può leggere la cospicua presenza di commedie, o di film che comunque hanno una certa carica ironica e umoristica al loro interno, presenti soprattutto nel fuori concorso “Festa Mobile” o anche nella sezione “Afterhours”.

Per esempio, in “Festa Mobile” è stato possibile assistere a una commedia tradizionale, efficace e molto divertente: The Grand Seduction del canadese Don McKellar, rifacimento di un film francese del 2003. La comunità di pescatori di una dispersa isola del Canada fa carte false per tenere il giovane medico lì trasferito, la cui presenza è fondamentale perché apra una fabbrica che riporterebbe nella comunità lavoro e vita. Tradizionale e lieve nello sviluppo, il film di McKellar ha il merito di ritrarre con acutezza una comunità isolata e alla ricerca di sé stessa, basandosi su una comicità di parola molto “english style” (e infatti è lo stesso regista a parlare dell’influenza delle commedie Ealing) e sul ping-pong dei dialoghi spesso irresistibile, e rafforzandosi con uno strepitoso Brendan Gleeson. La “grand seduction” riesce perché, pur con un intreccio tutto sommato prevedibile, oltre a divertire tanto, evita le derive retoriche e zuccherose che si nascondevano dietro l’angolo, conservando una sottile cattiveria di fondo e dando tra le righe (per fortuna) anche una morale sull’importanza del lavoro.

Ed è proprio una commedia ad aggiudicarsi la vittoria del Festival: stiamo parlando di Club Sandwich del messicano Fernando Eimbcke. Mamma e figlio alle soglie dell’adolescenza sono in vacanza al mare: il loro è un rapporto molto stretto e soffocante, in particolare da parte della madre, almeno fino al momento in cui il giovane inizia ad avere una piccola storia con una coetanea, causando così la non tanto celata gelosia della donna. Il film è il ritratto lieve di un triangolo affettivo, capace di creare momenti di tenerezza, e il cui umorismo, basato sui primi piani che sottolineano lo smarrimento dei volti e sui campi medi a cinepresa fissa che imprigionano i tre protagonisti in quadri di imbarazzo, rende tangibile il disagio, la tensione e l’imbarazzo delle situazioni. Si ride, a volte con malinconica tenerezza, ma Club Sandwich si mostra anche troppo esile per essere efficace fino in fondo, rimanendo in superficie e non approfondendo molti spunti narrativi e di analisi psicologica; così, ci troviamo di fronte a una buona commedia che però avrebbe avuto tutte le carte in regola per essere un’ottima commedia.

Un problematico rapporto madre-figlio è al centro di una altro film presente in concorso e che è tornato in patria con un soddisfacente bottino: Pelo Malo della venezuelana Mariana Rondon, vincitore del premio per la miglior sceneggiatura (della stessa regista) e per la miglior attrice (Samantha Castillo), oltre ad essersi aggiudicato alcuni premi collaterali. Il rapporto problematico tra madre e figlio, su cui pesa l’assenza e il fantasma del padre morto in una sparatoria, con la madre che ostacola in ogni modo il desiderio del figlio di diventare cantante per paura di una sua omosessualità, diventa metafora di una nazione in cerca di guida e col disperato bisogno di una difficile via d’uscita dal contesto di violenza diffusa. Non privo di qualche scena efficace e toccante, Pelo Malo ha però lo stesso problema di Club Sandwich: troppo esile in fase di scrittura per essere veramente pregnante fino in fondo e per approfondire tutti i temi proposti, anche quest’opera si mostra un po’ come un film “a metà”, solo un accenno del bel film che avrebbe potuto essere.

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Scritto da Edoardo Peretti.