“L’amore per la pelliccia è qualcosa di innato”. Chi non comprenderebbe l’allusione dell’autore, anzi pardon, dell’adattatore Thomas, protagonista di Venere in pelliccia, film presentato in concorso a Cannes da Roman Polanski, che dell’ambiguità e dei sottintesi che sono spesso i sotterranei bui dell’inconscio, è il maestro?

In un teatro parigino, Thomas, autore e regista dell’adattamento teatrale del romanzo scandalo di Leopold Von Sacher-Masoch Venere in pelliccia, sta per uscire dopo una giornataccia passata a provinare attrici fallite e inadatte al ruolo della sua protagonista. Sfiduciato e scontroso, Thomas si prepara ad andarsene quando nella sala buia del teatro irrompe Vanda, una bionda prorompente con tanto di mise sadomaso e collare al collo. Apparentemente, Vanda è solo una donna volgare e facile al turpiloquio, ma quando, dopo aver implorato Thomas, si cala nella parte dell’altra Vanda, la protagonista della pièce, dimostra di essere una perfetta Venere in pelliccia.

A suon di battute argute e affilate, Vanda e Thomas provano l’adattamento della Venere e cominciano a mettersi a nudo di fronte a se stessi e allo spettatore, che nelle perversioni di Severin von Kusiemski, protagonista del romanzo di Sacher-Masoch, intravede le ossessioni di Thomas e dello stesso Polanski, tutti e tre accomunati da un cognome polacco.

I livelli di lettura si moltiplicano in un film dove è difficile comprendere dove finisca il romanziere/regista e dove cominci il personaggio/adattatore. Come non pensare, infatti, a L’inquilino del terzo piano, a Trelkovski che si veste come la defunta Simone e ne diviene la reincarnazione, quando vediamo Thomas con le labbra tinte di rossetto e la pelliccia, che tenta in questo modo di incarnare la Venere dei suoi sogni? Così la fantasia di Thomas, e prima di Severin, diviene reale, si concretizza, e nello stesso tempo assistiamo a un capovolgimento dei ruoli: la dominatrice Vanda cede il proprio ruolo al servo Thomas. Eh già, perché le due entità, che sono agli antipodi, sono anche strettamente legate come le due facce di una stessa medaglia, sono la medesima cosa. Ecco perché Vanda, una dirompente e sensuale Emmanuelle Seigner, parla di ambivalenza e viene sempre corretta da Thomas, un ironico e convincente Mathieu Amalric, che invece si nasconde dietro al rifugio dell’ambiguità, che è appunto qualcosa che non si sa bene cosa sia. Sappiamo invece chi è Vanda, e cioè la personificazione in carne e ossa della Venere in pelliccia, del tipo di donna che Thomas vorrebbe al proprio fianco e che non ha il coraggio di conquistare. Vanda è stata mandata lì dal cielo, un cielo tempestoso e grigio di una Parigi autunnale, è un’apparizione come quella con cui si apre il romanzo di Sacher-Masoch. E’ forse il sogno proibito dello stesso regista.

Il film di Polanski, ambientato in unico spazio e interpretato da soli due attori, è una commedia frizzante e intelligente, piena di rimandi simbolici, di riflessi, di sdoppiamenti che vogliono ribadire l’unità-dualità maschile-femminile: si pensi al cactus fallico sul palcoscenico, rimasuglio di una vecchia scenografia western, che diviene la statua di Afrodite. Non è un tentativo di fare teatro al cinema, si tratta piuttosto di un cinema raccolto che non diviene mai noioso grazie all’abilità di due attori pieni di verve e a una sceneggiatura ricca di dialoghi spumeggianti e arguti, talvolta coloriti, che danno a un film leggero il sapore inconfondibile del torbido che è in ognuno di noi.

Scritto da Vera Santillo.

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