Uscito ad agosto su Sub Pop, Paracosm è il secondo album di Washed Out, ragione sociale che identifica il progetto di Ernest Green da Atlanta (Georgia). Nome di punta della cosiddetta chill-wave (o glo-fi, che dir si voglia), Washed out si allontana leggermente da una scena che solo due/tre anni fa era sulla bocca di tutti – si veda l’acclamato predecessore Within and Without e illustri compagni di strada come Toro y Moi – per approdare a lidi più agevolmente catalogabili alla voce dream-pop.

Non che l’elettronica sia del tutto scomparsa, intendiamoci, ma lo scarto “laterale” risulta evidente nell’introduzione di strumenti vintage quali mellotron e synth e in una produzione rigorosamente analogica. L’umore di fondo resta in ogni caso rilassato, intriso di dolci malinconie e reminiscenze eighties, sebbene l’elemento notturno non abbia più il sopravvento, tanto che lo stesso Green ha parlato in proposito di daytime psychedelia. Alla (piccola) svolta può aver contribuito in parte anche il trasferimento del Nostro dalla metropoli Atlanta alle atmosfere bucoliche e distese di una città di provincia come Athens, che sulla mappa dell’indie americano un ruolo importante lo ha rivestito, regalandoci tra i tanti B-52’s, R.E.M. e il collettivo Elephant 6.

Il risultato, di conseguenza, si colloca vicino alla sensibilità di gruppi come Animal Collective o Stereolab, benché filtrato dall’esperienza chill-wave. La cosa forse non causerà salti di gioia da parte di chi è sempre in cerca dell’ultima tendenza, ma a nostro avviso questi quaranta minuti rappresentano un passo verso un approccio più maturo e scevro da etichette. D’altra parte, non si può restare chiusi nella propria cameretta ad assemblare samples per tutta la vita. Suoni naturali introducono quindi la pregevole It all feels right, sogno in technicolor di una qualche spiaggia esotica con un ritmo in levare che echeggia idealmente la Down Under degli australiani Men at Work. Weightless contiene persino alcuni spunti prelevati dal songbook dei Black Heart Procession, laddove Great Escape ripropone nostalgie delle stagioni estive che furono, come una sensazione di calda brezza che ancora soffia sul viso. Falling back introduce un suono che, fatte le dovute proporzioni, risulta più epico e magniloquente senza scadere nel kitsch degli ultimi Editors e Glasvegas. La chiusa di All over now, infine, è degno commiato in forma di una polaroid dell’estate che va a morire. Questo, al momento, è più che sufficiente perché un poco ci si stringa il cuore.

Scritto da Fabio Plodari.

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