Camminavamo, dunque, tra i lemmi del Palazzo Enciclopedico della Biennale di Venezia, errando tra i Padiglioni con la gondola dello sguardo. E ci era piaciuta l’idea che quest’arte degli anni duemila e oltre, un’arte liquida come l’età che la esprime, in qualche modo, in quel di Venezia, fosse tutta da vedere e da vivere con la stessa fluidità del cinema, suggestione in cui avventurarsi anche osservando l’ampio spazio riservato alle performance. 

LE ALI DELLA LIBERTÀ – Ma oggi le performance possono fare a meno del corpo dell’artista: basta evocarlo come assenza, come corpo attoriale che non c’è; o meglio, che è altrove, in un altro set di vita. Il caso di Ai Weiwei, impossibilitato a raggiungere Venezia nel regime di libertà a raggio ridotto a cui è sottoposto, farebbe quasi venire in mente quello del regista iraniano Jafar Panahi, già premiato “in assenza” a destra e a manca, in diversi festival cinematografici, ma inabilitato dal proprio Paese a presenziare alle cerimonie, se non con la propria produzione – quanto sofferta, e inibita – d’immagini. A Venezia, di Ai Weiwei c’era la madre, Gao Ying, a pochi minuti dall’inaugurazione nella chiesa di Sant’Antonin a Castello. Non così tanti l’hanno notata, impegnati a orientarsi tra i sei enormi parallelepipedi di ferro di S.A.C.R.E.D. (Super, Accusers, Cleansing, Ritual, Entropy, Doubt), l’opera del dissidente cinese in mostra alla Biennale. Tra le campate, in versione diorama, ci è dato sbirciare come campa, oggi, questo artista, grazie a installazioni in fibra di vetro e ferro, misura 377 x 198 x 153 cm, che riproducono sei scene quotidiane di un internamento senza scampo. La doccia, l’interrogatorio, la cena, gli spostamenti, il sonno: la Passione di Ai Weiwei? Il Cristo nella mandorla, o con gli occhi a mandorla? È come se qualcuno avesse imprigionato uno spicchio d’universo di George Segal. Ma Ai Weiwei è tutt’altro che anonimo, sa di essere diventato un’icona (anche in senso bizantino), un pop artist contro la Pop Republic di Cina. Impossibile non pensare alla casa di Barbie, ma con la barba, contro presunti barbari. E qui, piuttosto, l’immagine è appunto contro l’omologazione, anche se necessariamente omologata allo star-set artistico. (La madre è una controfigura).

I parallelepipedi, al tatto, restituiranno, pure, il gelo delle sbarre di un carcere, ma sono blocchi friabili come l’isola di Alcatraz: la loro porosità è nel concedere la visione, e con essa nel superare il confine fisico – e culturale – della disinformazione visiva, della reclusione di idee. L’artista è inevaso, ma l’arte si muove sulle ali della libertà, anche quando il suo movimento racconta la staticità. O, se si vuole rovesciare il concetto: l’immagine, a volte, è ancora, è solo una prigione

CODICE GENESI – Non sarà un’eresia, ma certo il Padiglione Vaticano è una novità. La prima esposizione della Santa Sede è stata curata da Antonio Paolucci, Direttore dei Musei Vaticani: con tanta voglia di fare, forse troppa. Un ambiente ispirato a Genesi e dintorni, ma che genera un po’ di confusione. C’è buona arte, ad ogni modo, se ci consentite di parlare ancora al di qua del bene e del male.

Un saggio disse una volta che Michelangelo è un artista pop, visto che finisce puntualmente su tazze e cuscini. Se a citarlo è un altro artista – pop! ma non solo – quale Tano Festa, il senso di un cultura radicata nell’Umanesimo, da opporre alla spersonalizzazione dell’uomo a una dimensione marcusiano, emerge con la stessa prepotenza plastica dei muscoli tutti bozzi e turgori dello scultore/pittore rinascimentale. Una cultura imprigionata, ma è una vecchia – e sempre attuale – storia.

Uomini sono anche quelli del carcere di Milano-Bollate, che nell’installazione del collettivo Studio Azzurro, In principio (e poi), compaiono su quattro schermi, uno a terra e tre su parete, per raccontare la propria storia allo spettatore non appena toccati. Un touch screen per mettere in contatto, in touch, sia pure in una babele digitale che confonde gesti e toni, ma da cui, con pazienza di Giobbe, qualcosa pur si caverà, anche apocrifo, in termini di comunicazione emotiva. Dall’ombra, quei corpi si cavano come Caravaggio; non i dipinti di Caravaggio, ma la persona fisica, che soffrì nelle carceri.

E a proposito di disordine, nelle fotografie del ceco Josef Koudelka, classe ’38 e classe in bianco e nero, tra trittici e citazioni bibliche, l’intervento dell’uomo sulla Natura è una genesi rovesciata, la violenza è una de-creazione. Con la benedizione di Rothko e Giotto, Lawrence Carroll, statunitense di origini australiane, prova a creare la sua Assisi Chapel, dove alle stimmate di San Francesco si sostituiscono, come vie d’accesso ad un assoluto che rivive nell’intimità del riguardante, le piaghe della materia: stoffe deturpate, che raccontano una storia di cenci e derisioni; ergo, una Cristologia per cicatrici, per sai rammendati. Assieme alle altre opere, il tutto suona come una cantoria affollata: anche se, poi, i canti erano recitati con passione.

Ma questo Padiglione resta una stazione necessaria, nel calvario spirituale e linguistico, o babelico, dell’arte contemporanea: la Genesi come codice, nell’Apocalissi dei codici, nella prigione di tanta arte ereticamente vuota. Un’arte che, imprigionata dal mercato e dal divismo, si dibatte come i Prigioni di Michelangelo. E scusate se è un’idea pop…

(…continua…)

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Scritto da Antonio Maiorino.