Matthew Weiner firma con Janet LeahyA Tale of Two Cities“, nuovamente diretto da John Slattery. Il titolo altisonante è quello di un romanzo scritto da Charles Dickens, e forse suonerà familiare al pubblico di Lost, serie che ne aveva già sfruttato l’orecchiabilità per la première della sua terza stagione. Mad Men lo prende in prestito suggerendo l’ennesima allusione allo sdoppiamento, ma ne utilizza soprattutto l’appeal geografico: ci sono due città, una è New York, l’altra è Los Angeles; come sappiamo, sono agli antipodi e tutto il resto è noia.

La partenza con destinazione West Coast di Don Draper, Roger Sterling e Harry Crane svela il volto carnevalesco, già intravisto a più riprese, del carrozzone fin qui chiamato SCDPCGC: tolta la maschera della normalità, i personaggi cercano nevroticamente di cambiare la propria situazione con sistemi poco leciti. L’assenza delle colonne portanti autorizza chi è rimasto a comportarsi diversamente dal solito, tramando, osando troppo e litigando furiosamente come fa Michael Ginsberg con Jim Cutler in un momento di frenesia (un altro weekend di stimolanti?). Jim, da parte sua, reagisce irrazionalmente, progettando di licenziare l’intero personale della SCDP e imbastendo non si sa bene quale macchinazione per “farsi lasciare” da un cliente di Roger. I suoi intrighi coinvolgono l’ignaro Bob Benson, che in “A Tale of Two Cities” ci viene mostrato nei panni di aspirante venditore modello rinchiuso in ufficio ad ascoltare dischi di self-help per diventare ancora più bravo e ispirato. È un Bob meno misterioso, che fa tenerezza e si prende persino qualche strigliata: “E tu perché sei sempre quaggiù? Tornatene di sopra!”, gli urla Jim, anche se poi, alla fine della puntata, lo manderà a Detroit per lavorare insieme a Ken col cliente più importante, la Chevy. Joan Harris trama e ordisce nell’ombra, prendendosi grandi libertà, spinta dall’emotività più che dall’opportunismo. Lo sgambetto che fa a Pete non sembra prodotto da una precisa strategia, quanto piuttosto da quell’accumulo di frustrazioni già evidenziato innumerevoli volte nell’arco della stagione. Pete Campbell risolve la propria indignazione – si è ormai trasformato nel punchball aziendale – strappando stizzito il solito cannone dalle mani dell’ottimo Stan. La cannabis è qui uno strumento che possiede speciali poteri evocativi: la fumata di Pete produce, sulle note di Piece of My Heart, l’apparizione di un paio di gambe femminili decorate da una minigonna gialla; molto peggio farà il narghilè succhiato da Don in quel di Los Angeles.

“Odio le attrici”, dice Don a Megan fingendo di scherzare; ma il viaggio a L.A. trova la sua ambientazione naturale alla festa di una stella del cinema. Don e il suo pubblico vengono calati in un’atmosfera che ha parecchie analogie con la scena del party di Io e Annie. L’incontro con Danny Siegel, ora Daniel, ripropone il personaggio-macchietta della quarta stagione nella sua nuova versione californiana; e somiglia molto al produttore discografico interpretato da Paul Simon nel film di Woody Allen. Il disprezzo per la California, che solo il vero newyorkese sa covare, è affidato in questa occasione a Roger, mentre Don, programmaticamente fuori posto (“Tu sei quello che è arrivato in taxi”, evidentemente un fatto assurdo per L.A.), fa il turista. Solo Harry è perfettamente integrato nel tessuto sociale che riveste l’evento; i suoi colleghi sono invece alieni, e i brand che la loro agenzia pubblicizza restano del tutto ignoti sulla costa occidentale. Gli altri richiami cinematografici non rimandano affatto alle sortite comiche di Hollywood party, ma al cupo incipit di Viale del tramonto. Don, eccezionalmente guidato dall’effetto di una sostanza diversa dall’alcol, conclude una sequenza visionaria osservando il proprio corpo galleggiare semi-annegato nella piscina. L’immagine è un esplicito reverse della famosa inquadratura subacquea del cadavere di William Holden nel film di Billy Wilder. La morte è sempre in agguato e Dinkins, che Don immagina come un fantasma mutilato nella sua divisa, ne è il messaggero (una giovane incarnazione del vero Don Draper?). Stavolta c’è mancato poco.

Il tramonto di Don attraversa così la sua tappa in California, lo stesso luogo in cui la vita del personaggio è ricominciata più d’una volta. Los Angeles è la patria di Anna Draper e del vero Don, la terra che gli ha donato una seconda chance; ed è stato durante un viaggio a L.A. che Don si è scoperto innamorato di Megan e le ha chiesto di sposarlo, iniziando una nuova esistenza trasformatasi in fretta in qualcosa di troppo simile alla precedente (e l’inconscio di Megan le fa dire: “Il più grande errore della mia vita”). Don, immerso nelle sue allucinazioni, dice all’attrice californiana di non chiamarlo così perché non è il suo vero nome; Los Angeles è ancora una volta l’unico luogo dove Don può chiamarsi Dick. E mentre Don e Roger sono lì, i loro soci decidono finalmente quale sarà il nome dell’agenzia: Sterling, Cooper and Partners. Così simile al nome iniziale, Sterling Cooper (“È l’unica soluzione che offenda tutti allo stesso modo”), senza acronimi che ne cambino la musicalità, senza altri cognomi: un passo indietro, verso l’origine, un ritorno allo status quo di una volta.

Durante l’assenza dei loro difficili capi, Peggy Olson e Joan Harris giocano un doppio cercando faticosamente l’affiatamento. Le due donne non hanno alter ego che ne minaccino l’identità sul luogo di lavoro; la creativa che aveva sostituito Peggy è scomparsa (evidentemente licenziata), mentre il doppione di Joan si è rivelato, banalmente, come la segretaria personale di Ted Chaough. Ora Joan sta lottando per dimostrare al mondo intero che lei, a tutti gli effetti, segretaria non lo è più da molto tempo. La connection tra le due protagoniste, a lungo attesa e invocata dagli spettatori affezionati, parte col singhiozzo: Peggy, come i colleghi maschi, rinfaccia a Joan il suo “sacrificio sessuale” e contrappone se stessa come esempio virtuoso. La sottotrama che le vede in azione si conclude però soavemente, rivelando un’innovazione nelle energie di Peggy proprio grazie al disordine portato da Joan. Peggy improvvisa una mossa strategica di rara sensibilità tutta in favore della socia, proprio dopo aver subito un clamoroso fail nella gestione dell’amato capo. “Ci penso io a Ted”, dice infatti Peggy a Joan, ma a Ted Chaough è sufficiente un’occhiataccia per zittirla e farle abbandonare la stanza. Ciò nonostante, l’espediente attuato da Peggy dietro le quinte funziona perfettamente, ed è una manipolazione che agisce proprio su Ted, a sua insaputa. Abbiamo tanto atteso l’alleanza tra Peggy e Joan; ora che sta succedendo davvero, forse assisteremo a qualcosa di imprevedibile.

L’apparizione virtuale di Megan Draper, vestita da hippy, incinta e innamorata di Don e della California, sembra voler provocare ancora una volta gli spettatori, attirandoli nell’ennesima trappola di teorie e di previsioni. Si istiga il pubblico alla speculazione, lo si invita a risolvere il rompicapo Mad Men: cosa vuole suggerire la geometria dei riferimenti che ne caratterizza l’estetica? Mad Men è un rebus da decifrare? Oppure ne ha solamente l’aspetto? L’amo è stato buttato varie volte, ma con maggior veemenza nello scorso episodio “The Better Half“, dove Megan veste come Sharon Tate in una foto apparsa su Esquire nel 1967. La famigerata t-shirt con la stella rossa ha segnato Megan, o almeno così predicono le fan theories che ipotizzano la sua imminente morte violenta, orribile come quella della Tate. E in effetti le similitudini tra Megan e la defunta moglie di Roman Polanski abbondano, così come non mancano mai gli oscuri presagi. L’estraneità si è già insidiata nella casa dei Draper, eppure le sue intenzioni non erano sanguinose; ma, se più avanti accadrà l’irreparabile, chi sarà a scrivere “Helter Skelter” su un muro dell’Upper East Side?

Continua a errare su Facebook e su Twitter per essere sempre aggiornato sulle recensioni e gli articoli del sito.