The Bay di Barry Levinson. Cymothoa exigua, o pulce di mare: un parassita innocuo per l’uomo, addomesticato persino dalla tassonomia latineggiante. Ma nella baia di Chesapeake, nel Maryland, un’involontaria coltivazione genetica alimentata da un po’ di radiazioni nucleari e da qualche tonnellata di letame di pollo, ha dopato gli animaletti, fino a farne un incubo che striscia e divora dall’interno: i pesci, che nell’acqua ci vivono (e ci muoiono), così come gli umani, da bagnanti o da bevitori dell’acqua desalinizzata – ottima, proclama il sindaco bevendola: the best darn water. E maledetta è davvero, al punto di guastare la festa del 4 luglio nella cittadina di Claridge, dove la gara di mangiatori di granchi finisce a ondate di vomito e ai bambini in acqua servirà qualcosa di meglio del doposole. Colpa del parassita, ma sarà un para-sito web, Govleaks (vi ricorda niente?), a riportare la storia tempo dopo, intervistando via Skype una giovane reporter e recuperando alcuni lost footages, per raccontare una vicenda messa a tacere dall’alto.

B-movie splatter nelle viscere, come uno Slither o un Isolation – La fattoria del terrore, ma elegantemente formulato con un’anatomia da mockumentary del terzo millennio, The Bay di Barry Levinson è di fatto un eco-horror, laddove per “eco” dobbiamo intendere anche l’amplificazione dell’effetto mediatico di un’informazione torbida almeno quanto i meccanismi del potere, putrida almeno quanto le acque inquinate. Laddove i fatti della narrazione si erano impantanati nella censura, la ricostruzione del raccapriccio nascosto si costituisce come una versione orrorifica di Superquark, con tanto di micro-camere infilate nel ventre dilaniato dei pesci, con i parassiti ancora all’opera, ma anche come un reportage che mescola acque basse ed acque alte della verità, ossia riprese amatoriali con cellulari e fotocamere, ma anche filmati di valenti biologi del Cousteau Institute o sequenze riprese dalle videocamere della polizia.

Dal punto di vista del finto prodotto mediatico, The Bay intende configurarsi come un blob, in cui è il montaggio a dar senso, con una strategia dello shock basata sull’accostamento – Miss Crostacea bellissima, poi divorata dai parassiti – o della ripetizione – il sindaco che beve l’acqua per tranquillizzare, in piena propaganda, i propri cittadini, o il blogger che con la videocamerina a infrarossi esplora le dune di letame degli allevamenti di polli, scene entrambe proposte all’inizio e ripetute a carneficina in corso, quando lo spettatore è in grado di attribuirvi un diverso significato. Se come pseudo-inchiesta il film esplora l’orrore morale – di un’amministrazione incompetente che tiene l’economia in buone acque chiudendo un occhio sulle cattive acque della baia, di forze dell’ordine inquinate dal disordine mentale, di agenzie di ricerca scientifica che ricercano il modo opportuno per lavarsi le mani mentre i dottori amputano mani purulenti in ospedale – come sci-fi horror The Bay punta a un orrore strutturato, con una sorta di insistenza clinica sulla cute lesa, sulla pelle piagata da fistole, sui ventri rigonfi in cui s’immagina – e l’immaginazione crea una paura anche più atavica dell’immagine tout court – che i parassiti stiano banchettando.

Su questa superficie da reportage, in cui la paura è relegata sottopelle, come un parassita che si nutre di viscere, certe infiammazioni emotive proprie dell’horror si propagano con la repentinità di un rush o di una mutazione genetica, o generica (cioè di genere), nelle scene più fedeli al tono del vecchissimo, recente film dell’orrore, anche quello dei produttori (gli stessi di Paranormal Activity): la giovane reporter si avvicina circospetta a una macchia di sangue, sudando freddo, e poi sudando sangue, ma è solo lo sgocciolamento di un corpo straziato dal pontile soprastante, emerso con la rapidità di uno zombie veloce; una donna fugge da una casa ricolma di cadaveri, ma in macchina spunta all’improvviso, dal sedile posteriore, un corpo semi-disfatto che invoca aggressivamente aiuto. La strategia dello shock di significato si contamina con quella dello shock emotivo, il mockumentary si connette intimamente al film dell’orrore.

(il frame è in low fi nel film, perché la cam si guasta)

In questa storia di cittadini trattati come polli e tenuti all’oscuro, e di letame nascosto, la verità torna a galla come i pesci morti in superficie: finché all’Apocalisse sopravvive qualcuno, o meglio, qualche sguardo. La maggior parte dei protagonisti delle riprese, infatti, sono già morti: come il cameraman della giornalista. Eppure, la loro voce esiste ancora attraverso la loro visione, come se i mezzi di ripresa fossero organi più resistenti. Può anche succedere, allora, che un dottore si ritrovi in un ospedale evacuato in mezzo ai corpi amputati, abbandonato da tutti, in una scena desolante e più profondamente agghiacciante di uno splatter cutaneo: la sua pelle si sta già disfacendo, ma resta ancora un aggeggio per filmare, per evitare che alle tante amputazioni taciute si aggiunga una pericolosa lobotomia, se non un asporto degli occhi dalle orbite.

Con The Bay, Barry Levinson racconta  l’American horror story di apocalittici, disintegrati ed integrati, in cui al disastro naturale non sopravvivono i tanti corpi infestati dai parassiti, ma nell’inquinamento morale della politica e dell’informazione si salva chi, integrato criticamente nella società tecnologica, riesce a salvare lo sguardo, al di là delle acque torbide della censura.

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Scritto da Antonio Maiorino.