Giochetti alla Frankenstein di un gruppo di scienziati creano una sorta di simil-Lucy del recente film di Besson con lo sguardo di Satana di Carrie: in sintesi, questa è la sostanza – ma mal sintetizzata – del laboratorio cinematografico di The Lazarus Effect. Risibile e forse un po’ pretenzioso nel sottofondo etico, improbabile e confuso nella costruzione scientifica, ma soprattutto – e da questo non si resuscita – piuttosto sbilenco e frettoloso nell’esecuzione, il film di David Gelb può al più essere goduto, senza farsi troppe domande, come quelle produzioni sputate con fretta dall’industria da consumare ancor più frettolosamente.

Giovane coppia di ambiziosi scienziati (Olivia Wilde e Mark Duplass) guida un team di ricercatori alle prese con degli esperimenti per migliorare l’attività cerebrale dei pazienti in coma. Come insegna la mela di Newton, il caso spesso soccorre la scienza; così, un cane resuscita e il gruppo realizza di avere tra le mani un siero dall’effetto miracoloso, anche se dai possibili effetti collaterali – vista una certa “lunaticità” del quadrupede. Il tempo di raccapezzarsi e un colosso farmaceutico, che tutto monitora, sottrae lo studio ai giovani, costretti a ripetere l’esperimento filmato di notte, infiltrandosi clandestinamente, per reclamarne la paternità. Lei ci resta fredda per un colpo di corrente elettrica, con sorprendente reattività lui decide freddamente di continuare l’esperimento resuscitando l’amata al posto del partner. Come volevasi dimostrare: effetti collaterali, tipo una superpotenza cerebrale al servizio di cattivi pensieri.

BU… CO NELL’ACQUAThe Lazarus Effect intriga benino con le promesse e sbriga male le promesse. Gelb prova ad usare jump-cuts, falsi allarmi, black-out e giochi di luce per rinvigorire una suspense che non decolla mai, causa l’eccessiva brevità dei momenti di autentico orrore, le discutibili tattiche del “bu!” per terrorizzare, un finale confusionario che corona come debita conseguenza l’evidente latitare di autentiche idee. Basti pensare all’avvilente stereotipia dei personaggi del gruppo – il nerd, l’afro, la giovane idealista – o a cadute di stile, come un occhiolino che uccide, da segnalare non per questioni di lana caprina, quanto perché stridono rispetto al contesto di un film che vorrebbe proporre altra credibilità.

CERTE MORTI – Prova a fare da re-animator un’Olivia Wilde ben calata nel ruolo, ma mal istruita dalla sceneggiatura arrabattata: un’occasione persa per una potenziale scream queen a cui l’urlo resta strozzato in gola. Certe morti pacchiane alla Final Destination, poi, segnano in maniera indelebile il destino di un prodotto mediocre, del quale, almeno, si può provare ad apprezzare l’innegabile crescendo di tensione negli ultimi venti minuti. Il finale potrebbe far pensare a un sequel: se dovesse esserci, auspichiamo che la storia resusciti più malvagia e potenziata.

Antonio M.
4 1/2

Scritto da Antonio Maiorino.