Welcome to the Tombs (Nelle tombe), andato in onda il 31 marzo negli USA e il primo aprile in Italia, pone fine alla terza stagione di The Walking Dead. Scritto da Glen Mazzara (già sceneggiatore di sei episodi della serie) e diretto da Ernest R. Dickerson (qui dietro la macchina da presa per la settima volta), l’episodio si inserisce perfettamente in linea con questa seconda metà di stagione.

Nel preambolo, il Governatore sta torturando Milton – la macchina da presa utilizza un’efficace soggettiva – e lo lascia in fin di vita nella stanza con Andrea, legata e condannata: o l’uomo la uccide da vivo o la ucciderà una volta trasformatosi in “azzannatore”. Poi ci si sposta nella prigione, dove è in corso l’organizzazione della difesa. E ancora una volta Rick ha una visione della moglie Lori – sempre angelica, inquadrata dal basso verso l’alto, lievemente in controluce, come Dante vedrebbe la sua Beatrice.

Mentre Tyreese – personaggio di rilievo nel fumetto originale di Robert Kirkman e che si presuppone dunque avrà più spazio nella prossima stagione – e Sasha rimangono in città, insieme ad anziani, donne e bambini, il gruppo guidato dal Governatore inizia a muoversi verso la prigione, al comando sia dei suoi soliti soldati addestrati sia di normali cittadini, uomini e donne galvanizzati dalle sue parole. L’assalto alla prigione è una discreta sequenza di “guerra”, che risente fortemente – e forse più di tante altre volte – dell’estetica dei videogames (Resident Evil docet), in particolare nei particolari dei corpi degli zombie che – inquadrati da lontano – esplodono sotto i colpi delle armi da fuoco.

La prigione viene trovata vuota (significativa la citazione del Vangelo di Giovanni 5:29, che il Governatore trova aperta su un tavolo: “quanti fecero il bene, per una risurrezione di vita, e quanti fecero il male, per una risurrezione di condanna”), ma naturalmente è una trappola: tra fumogeni ed “erranti”, i “cattivi” sono costretti alla fuga. Nel frattempo, nel bosco, una sequenza importante nello sviluppo generale dell’intera serie viene liquidata un po’ frettolosamente: Carl, sotto lo sguardo impietrito di Hershel, uccide infatti a sangue freddo un ragazzo del gruppo del Governatore, proprio mentre si sta arrendendo. Si giustifica poi con il padre: ha ucciso preventivamente, poiché ogni volta che, fino a quel momento, ha deciso di risparmiare qualcuno, la sua “buona azione” gli si è sempre rivoltata contro: in un mondo popolato da zombie e soprattutto in cui non ci si può più fidare di nessun essere umano, non c’è ormai spazio per la generosità, l’altruismo, la pietà.

Dopo la fuga dalla prigione, il Governatore, preda di un attimo di lucida follia – decisamente il momento “definitivo” nello sviluppo del personaggio –, spara a tutti i suoi cittadini inermi (compreso Allen), solo perché non vogliono più combattere contro altri esseri umani. Sopravvivono solo Martinez e Shumpert, che inspiegabilmente continuano a seguire il loro capo e si allontanano con lui, e Karen, che finge di essere morta e si salva, per poi essere recuperata dal gruppo di Rick, che si dirige verso Woodbury. Nell’ex ideale e utopica cittadina, i “buoni” vengono accolti da Tyreese e Sasha; e il gruppo trova così Andrea, che è stata morsa da Milton ed è in fin di vita: si assiste così all’ultimo saluto all’amata compagna, che paga la fiducia concessa al folle amante con la morte, sparandosi in testa prima della trasformazione.

All’alba di un nuovo giorno, Rick porta il gruppo dei sopravvissuti di Woodbury alla prigione: viene così significativamente annullato uno dei due luoghi cardine di questa terza stagione. Rick guarda ancora verso il punto in cui era solito vedere sua moglie, ma non scorge nulla: forse la follia – che nell’episodio 3×09 sembrava averlo travolto – è scongiurata; e dopo aver precedentemente riaffermato il valore della democrazia all’interno del suo gruppo, di certo si presuppone un nuovo inizio, anche se l’inquadratura finale (dopo un suggestivo campo lungo che ritrae i soliti erranti, ormai parte del panorama) non lascia ben sperare: The Walking Dead finisce con una croce piantata nel terreno, ambiguamente simbolo sia di morte sia di speranza e resurrezione, ma solo per chi ancora vuole credere in qualcosa, naturalmente.

Un finale poco riuscito, in conclusione. Delude la storia, delude il discorso – per usare termini chatmaniani. Da un lato ci si aspetta finalmente la morte del Governatore, che invece viene procrastinata ancora una volta, ma che si può supporre inevitabile (dunque perché rinviarla ancora e ancora?), sempre facendo riferimento al fumetto-base; dall’altro si inizia ad avvertire nell’intreccio una certa monotonia: è mancata una svolta importante, in questi ultimi episodi; ed è mancato il cliffhanger, che talora può innervosire lo spettatore, ma che di certo sempre emoziona, lascia con il fiato sospeso e apre a diverse ipotesi e congetture. Di certo in questa seconda metà di stagione, tirando le somme, si è andata sciogliendo e perdendo quell’epicità caratteristica di quasi tutta la seconda e soprattutto della prima metà della terza. Speriamo che il declino sia solo una fase transitoria. E attendiamo ottobre 2013 per un nuovo incipit.

Scritto da Luca Pasquale.

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