La rivincita del campione è un film del 2007 interpretato da Samuel L. Jackson e Josh Hartnett, per la regia di Rod Lurie. Vi si narra di Erik Kernan jr., un giovane giornalista sportivo in crisi di ispirazione che si ritrova per caso a soccorrere un anziano senzatetto, il quale dichiara di essere la leggenda della boxe Bob Satterfield, ex contendente al titolo mondiale dei pesi massimi creduto morto da anni. Erik è convinto di avere fra le mani l’occasione per rilanciarsi professionalmente attraverso la vicenda del campione, ma non tutte le cose sono quello che appaiono…

Ispirandosi, con ampie licenze, a una storia vera – resa celebre in un articolo del Los Angeles Times Magazine da J.R. Moehringer – il regista Rod Lurie, di origine israeliana, mette in scena un dramma di buona fattura che anticipa, per certi aspetti, la struttura e le caratterizzazioni del più celebre Il solista di Joe Wright, e che si avvale di una costruzione narrativa robusta e appassionante e della pregevole interpretazione di attori all’altezza.

La sceneggiatura, scritta da Michael Bortman e Allison Burnett, parte dal mito tipicamente americano della seconda occasione per affrontare vari temi, fra cui l’etica giornalistica e il legame padri-figli: fino a che punto è lecito mentire quando si è in buona fede e si hanno obiettivi di fondo più o meno nobili? E fin dove ci si può spingere, per mantenere in vita un’immagine di sé stessi che corrisponda a quella idealizzata dai propri cari? Il film non dà risposte né giudizi, limitandosi a mettere a nudo, poco alla volta, i limiti e le debolezze dei due personaggi principali – il giornalista e il senzatetto – e costruendo attorno a essi un castello di aneddoti, bugie, esagerazioni che finiscono col cementare un rapporto che da pura complicità si trasforma, piano piano, in qualcosa di molto simile a un’amicizia. E la riflessione che ne risulta né assolutoria né di condanna, è convincente nella sua profondità, rendendo il film onesto e piacevole, pur nei limiti di una produzione a basso costo e visivamente modesta.

A incarnare i due protagonisti, due attori di diversa caratura ma comunque capaci di aderire ai loro ruoli: da un lato, l’istrionico Samuel L. Jackson, pur essendo un po’ troppo giovane per la parte – il suo personaggio dovrebbe avere circa ottant’anni – offre una delle prove migliori della sua lunga carriera, impersonando un malconcio reduce del ring, devastato dalla tragedia personale e ridotto a vivere per la strada fantasticando di presunte glorie passate; dall’altro, il belloccio Josh Hartnett, malgrado sia abbastanza soverchiato da Jackson nelle sequenze di coppia, riesce comunque a dare credibilità a un personaggio meschino ma non del tutto privo di principi, che si sforza di essere un marito all’altezza per Joyce – al contrario di lui giornalista di successo – e un buon padre per il piccolo Teddy, dopo aver sofferto lui stesso l’assenza di una figura maschile di riferimento.

Il resto del cast sta al gioco con gran professionalità, da Alan Alda nel ruolo del burbero direttore del giornale, a David Paymer in quello di un editore dall’indole paterna, fino ai due personaggi femminili principali, la moglie Joyce e la collega Polly, che hanno le fattezze di due star della TV, rispettivamente Kathryn Morris (Cold Case) e Rachel Nichols (Alias). Particolarmente riuscite le caratterizzazioni della Desperate Housewife Teri Hatcher nella parte di una cinica e disillusa manager televisiva, alla quale è affidato uno sferzante monologo sulla rappresentazione dello sport su piccolo schermo, e del veterano Peter Coyote, irriconoscibile, in quella di un ex promoter di boxe in là con gli anni ma dalla memoria infallibile, protagonista di un divertente scambio di battute con un collega un po’ suonato.

Nonostante il suo indubbio valore, Resurrecting the Champ fu un grosso flop nelle sale statunitensi, e soffrì di una distribuzione molto limitata nel resto del mondo: in Italia è arrivato con cinque anni di ritardo, direttamente in home video e penalizzato da un doppiaggio mediocre e da un titolo banale e fuorviante, che fa pensare a un Rocky della terza età.

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