John Mayer non è certo il classico cantantucolo neomelodico che possa aizzare le folle di brufolosi adolescenti in giro per l’Italia, e infatti stiamo parlando di un vero cantautore rigorosamente statunitense che, con il suo ultimo e quinto album solista, Born and Raised, uscito il 22 maggio scorso, ci regala una piacevole parentesi country-folk in questi tempi di magra e di decadenza finanziaria e culturale. Per questo forse non sentirete parlare di lui sulle prime pagine dei giornali nazionali e forse le nostre radio non lo passeranno una dozzina di volte al giorno come mille altri tormentoni estivamente tamarri. E probabilmente nessuna compagnia telefonica utilizzerà un suo brano per sponsorizzare l’ultima offerta all inclusive con tanto di siparietto comico, frizzi e lazzi. Aggiungete poi che in questo disco ben confezionato nella migliore tradizione country, si ritrovano tutti quegli ingredienti che tipicamente piacciono all’americano medio ma che raramente fanno vibrare le corde degli animi italici, per ovvie e sacrosante ragioni culturali.

È vero, John Mayer, un po’ come tanti altri artisti del nostro tempo, è stato duramente criticato per aver cercato il successo ed essersi “abbassato” a livelli un po’ troppo faciloni e deludenti, sempre tenuto conto del suo notevole talento: il penultimo album Continuum (2007) aveva venduto un sacco (si parla di milioni di copie), sulla scia del contratto con la Columbia Records (2001) e dopo aver portato a casa il Grammy Award nel 2003 e nel 2005.  Sì, forse anche per questo la critica si sentiva in dovere di sottolineare il “tonfo” qualitativo di Mayer: le logiche di mercato fanno spesso a pugni con la qualità dell’opera, e questo è nella top ten dei temi più dibattuti nell’intera storia dell’umanità, rispettivamente dopo il pagamento ritardato dell’IMU e le accise sulla birra al supermercato per ripagarci i danni della guerra di Etiopia. Quindi inutile che ne parliamo qua, anche perché lo spazio, purtroppo, è quello che é.

In effetti il country è da sempre il genere USA per eccellenza, e non ci si deve stupire del fatto che al momento John Mayer, nato nel Connecticut nel 1977, sia primo nelle classifiche di vendita del Paese a stelle e strisce, avendo virato decisamente verso il genere più tradizionalmente country-blues. Se poi a questo aggiungete la produzione di Don Was, già produttore per B.B. King e per i Rolling Stones, il gioco è fatto: per rendersi conto di quanto un produttore possa incidere sul risultato finale, basti pensare ai Coldplay dopo l’arrivo di Brian Eno. Una trasformazione radicale, ma questa è  tutta un’altra storia.

Born and Raised può piacere anche ai non cultori del genere, perché mixa con gusto dolci melodie country, atmosfere blues, qualche pizzico di poppettino americano meno impegnato ma testi particolarmente azzeccati: la collaborazione di professionisti come David Crosby e Graham Nash non può che contribuire alla qualità dell’album. Queen of California, che apre il disco, ci porta alla mente sabbiose highway in mezzo al nulla, mentre le atmosfere più pop di Shadow Days, il primo singolo dell’album, sembrano cucite addosso al mercato USA, utilizzando per questo formule abbastanza trite ed inflazionate. Con Born and Raised si raggiunge però l’apice emotivo, e non ci si può non scaldare il cuore con il calore di questa chitarra e le sue dolci e rassicuranti note. Atmosfere che pervadono l’intero album e lo rendono omogeneo, con passaggi particolarmente intensi come in Whiskey, Whiskey, Whiskey e A Face to Call Home.

Un disco “intero”, confortante e positivo, che può piacere a molti. Da ascoltare in un pomeriggio piovoso d’estate, con una tazza di te’ in mano. O di Whiskey, se preferite.

Scritto da Massimiliano Lollis.

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