Hamlice. Saggio sulla fine di una civiltà, già il titolo incuriosisce. Pensare poi ad Amleto che rifugge la sfiga che lo perseguita nel paese delle meraviglie e a una povera Alice che, tra bianconigli con la fissa della puntualità e cappellai allucinati si ritrova a prendere il tè con Rosenthal e  Guildenstern convince ad andare a veder l’ultima lavoro di Armando Punzo e della sua Compagnia della Fortezza.

La domanda è una: ma Shakespeare con Carroll cosa c’entra? Vabbè che viviamo un’era globalizzata dove tutto viene rimescolato, ma ai detenuti del carcere di Volterra è venuta un’idea proprio strana. Eppure pensandoci tutto torna.

In Hamlice, frutto di una riflessione collettiva attorno all’essenza di due opere, drammaturgie opposte vengono decostruite in frammenti e poi rimescolate in una sorta di mash-up che si allontana dal linguaggio della tradizione per avvicinarsi alla realtà di una cella.

Per quanto l’operazione sia sottile e il messaggio subliminare i galeotti che affollano il marmoreo palcoscenico e che si aggirano tra le poltrone della platea si servano delle parole delle due testi per trasmettere al pubblico la propria condizione di non liberi. Non liberi di decidere il proprio destino come Amleto, non liberi di andare dove vogliono o tornarsene a casa come Alice, perennemente giudicati da una società di spettatori. E allora perché non capovolgere le cose, e da osservati diventare osservatori, e raccontare l’umanità che si vede ricorrendo a diverse citazioni, che vanno da Jean Genet ad Annibale Ruccello, fino a Pier Paolo Pasolini.

Uno spettacolo complesso, difficile ma nell’accezione positiva del termine, di quelli che non inquadri subito, ma se ci ripensi sù cominci a apprezzarne la fitta trama scenica, controllata con maestria da Punzo, la preziosità scenografica, l’impegno recitativo dell’intero ensemble e, soprattutto, il gesto liberatorio finale.

Scritto da Micol Lorenzato.

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