Lana Del Rey, Born to die. Nuovo talento di una scena musicale orfana di Amy Winehouse o mero fenomeno mediatico cui ricorre un’industria discografica sempre più allo sbando? Ai posteri l’ardua sentenza. Vero è che negli ultimi mesi Lana Del Rey – bellezza dal fascino old-fashioned e nome d’arte come le dive d’un tempo –  ha fatto parecchio discutere di sé, dividendo il pubblico in opposte fazioni che manco Guelfi e Ghibellini…

A ciò hanno contribuito in primis l’exploit underground di alcuni mesi orsono del videoclip di Videogames, che ha generato un fenomeno virale (oltre 30 milioni di contatti su youtube) e rotto i sensibili cuori di molti indie-kids. A seguire la montante attesa, l’esordio su lunga distanza ad assediare il regno mainstream delle Katy Perry o delle Gwen Stefani (altra performer alternativa in grado di liquidare il passato in quattro e quattr’otto); a questo secondo punto peraltro non ha giovato la recente controversa performance al Saturday Night Live, in cui  la ragazza un tempo conosciuta come Lizzy Grant ha letteralmente steccato, cosa che ha rinfoltito la schiera dei suoi detrattori.

Volendo analizzare il fenomeno al netto di  considerazioni su purezza/originalità, va annotata una manciata di brani davvero notevoli in cui la nostra eroina dispiega appieno lo charme di una voce capace di ammaliare anche l’ascoltatore più insensibile. Oltre alla già citata Videogames, si pensi ad esempio alla title-track Born to die oppure alla sublime Blue Jeans, in cui emerge tutto l’immaginario di cui sono intrise queste composizioni dalle atmosfere noir. James Dean, Raymond Chandler e James Ellroy; le corse notturne in automobile ed i film di David Lynch.

Non tutto però sembra così a fuoco e sovente si notano derive hip-hop volutamente ed eccessivamente radiofoniche tanto che la Del Rey pare più una versione patinata di Macy Gray –anche per via di un certo timbro vocale- che non la controparte femminile delle pulsioni 50s di Chris Isaak. Off to the races e Diet mountain dew fanno infatti sorgere non pochi dubbi; lo stesso valga per  National anthem, che parte citando i Verve di Bittersweet symphony e s’incanala poi su binari black contemporanei.

Prima dei titoli di coda c’è ancora spazio per brani degni di menzione quali Carmen o Million dollar man, e noi ci rituffiamo nuovamente nel mood da bavero alzato e nuvole di fumo , lunghi addii e drinks solitari al bancone del bar.

Sarà quindi la bella Lana l’insospettabile killer dal volto angelico della coscienza indie?

Scritto da Fabio Plodari.

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