Giornata dedicata a Nicholas Ray – il grande cineasta americano scomparso nel 1979, autore di classici come Gioventù bruciata e Johnny Guitar – quella di domenica 4 settembre alla Mostra di Venezia. È stata infatti presentata in Sala Grande, in presenza della vedova Susan, la versione restaurata del film sperimentale We Can’t Go Home Again, girato da Ray con i suoi studenti di cinema nel 1971 e oggetto di varie alterazioni, fino alla morte dello stesso regista. La proiezione è stata preceduta da quella del documentario Don’t Expect Too Much, dedicato alla lavorazione del film.

Analizziamo singolarmente entrambe le opere.

We Can’t Go Home Again

La pellicola, praticamente priva di sceneggiatura, è un valido esempio di cinema underground americano, in cui Nick, nella parte di sé stesso, interpreta una sorta di figura paterna saggia e carismatica, a cui gli studenti si rivolgono per avere consigli e lezioni di vita.

Frutto di un ottimo lavoro di squadra, in cui gli studenti formarono una sorta di comune, con l’insegnante nelle vesti del santone, il film inizia con riprese della Convenzione Democratica del 1968 e alterna sequenze narrative di varia lunghezza, basate sulle esperienze di vita reale degli stessi protagonisti, inserti documentari e diverse sperimentazioni psichedeliche. La creatività, le emozioni, il disagio giovanile trovano in questo film un’adeguata rappresentazione in celluloide attraverso un largo uso del sintetizzatore video, delle sovrimpressioni e dello split screen: tutto ha un fascino tipicamente vintage, anche se dietro ai colori accesi dell’acido e all’entusiasmo hippy serpeggia un angosciante pessimismo, soprattutto nelle deliranti sequenze finali.

Riportato agli antichi splendori grazie alla famiglia di Ray e all’interessamento dello stesso Muller, We Can’t Go Home Again ha resistito molto bene all’usura del tempo, conservando intatta la sua forza visiva e contenutistica dopo quasi quarant’anni di naftalina.

Don’t Expect Too Much

La pellicola illustra la realizzazione di We Can’t Go Home Again attraverso interviste agli ex studenti ormai sessantenni, fra i quali spicca Jim Jarmusch, che di Ray fu assistente.

Il ritratto che emerge dalle testimonianze è quello di un uomo ormai anziano, segnato dall’alcolismo, purtuttavia ancora estremamente creativo e vitale: la sua scelta di lasciare Hollywood in favore dell’insegnamento risulta emblematica nel delineare la personalità di Nick, che preferì mettersi in gioco al servizio dei più giovani, interpretando i loro sogni e bisogni come un vero padre, e fu capace di sfidare le convenzioni del sistema per parlare con nuovi linguaggi e sperimentare nuove tecniche espressive.

La visione del documentario, autentico atto d’amore nei confronti del regista da parte della vedova Susan Ray, è imprescindibile per capire meglio We Can’t Go Home Again e lo spirito davvero rivoluzionario di questa leggenda del cinema.

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