GotyeMaking Mirrors. Ci sono fenomeni facilmente decifrabili come risultanti di una più o meno chiara somma di fattori. Altri restano un’enigma. Ecco, Gotye per me resta un’enigma.

La sola hit Somebody that I use to know è in vetta alla classifica inglese dei singoli più venduti da 5 settimane, è al primo posto in Europa come singolo più ascoltato e ha già più di 140 milioni di visualizzazioni su Youtube, senza contare parodie e cover.

Qual è il segreto di questo cantante belga – australiano? Cosa ha conquistato un pubblico così eterogeneo? L’unica spiegazione che mi do è che tutto questo abbia a che fare con un’Apocalisse imminente e con una generale tendenza regressiva. Pare così che l’essere umano, anche dal punto di vista musicale, se in preda al panico ritorni a ciò che trova più rassicurante: le sonorità pop anni ’80/’90 più fiacche, gli effetti da pianola Bontempi, il faccione alla Sting.

Ma veniamo all’album. Making Mirrors sembra in definitiva il compito raffazzonato di un alunno non particolarmente precoce. Ogni canzone straborda di effettacci, riverberi, cori sfumati, campanellini, tutto quel repertorio anni ’80 che solitamente si preferisce tenere sepolto in regioni inaccessibili del subconscio. In alcuni casi la cosa si fa talmente sfacciata che viene da pensare che in realtà Gotye ci stia prendendo simpaticamente per i fondelli.

In definitiva il nostro non fa che azzeccare qualche motivo orecchiabile, come la linea di synth e gli intrecci strumentali di Smoke and Mirrors, pezzo superiore agli altri sia musicalmente sia come profondità del testo. La già citata Somebody that I used to know rimane un pezzo discreto, appunto perché più sobrio e minimal, libero dall’esubero di soluzioni infelici che costellano l’album. Eviterei comunque di scomodare Peter Gabriel per questo, anche perché gli elementi di world music rimangono, tranne che in questo brano, generalmente male integrati, giustapposti agli altri come in una caotica bancarella di modernariato.

Il resto va dal già sentito (il soul di quarta mano di I feel better, il funky pieno di reaganiano ottimismo di In your light), all’imbarazzante (State of art, un’accozzaglia di soluzioni che anche mio padre troverebbe antiquate). Se poi aggiungiamo il trip pop di Don’t worry, we’ll be watching you e il pop da boy band in fase riflessiva di Giving  me a chance, possiamo dire che Gotye le abbia davvero provate tutte e con scarsi risultati.

Eppure piace e moltissimo pure. E i fan son terribilmente suscettibili a riguardo. Che Gotye riesca ad esercitare un qualche prodigioso controllo delle menti? Noi ci manteniamo vigili e continuiamo ad indagare. Ascoltando altro, magari.

Scritto da Barbara Nazzari.

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