Razzabastarda, film del 2012 diretto e interpretato da Alessandro Gassman, descrive la vita quotidiana di Roman, sfasciacarrozze romeno di madre zingara, che arrotonda spacciando cocaina, e del figlio Nicu, diciottenne indeciso sulla strada da percorrere. Più il padre cerca di tenerlo lontano dal crimine, più Nicu si invischia in amicizie e attività poco raccomandabili: i peccati della famiglia finiscono col cadere sul figlio.

Presentato all’ultimo Festival di Roma, Razzabastarda – titolo che deriva dall’insulto razziale rivolto durante il film al protagonista per le sue origini nomadi – è una tragedia familiare di ambientazione sottoproletaria, cupa e disperata, agli antipodi di certo cinema borghese, spesso conciliatorio, tanto in voga in Italia negli ultimi anni.

Alessandro Gassman, alla sua prima regia completa (trent’anni dopo la collaborazione giovanile con il padre Vittorio nell’autobiografico Di padre in figlio), guarda alla cronaca nera dell’Italia devastata dalla crisi, e nel trasporre per lo schermo la pièce teatrale di Reinaldo Povod Cuba and his Teddy Bear, cambia l’etnia del protagonista da cubano a romeno, e lo mette al centro di un dramma sferzante, in cui lo scontro generazionale assume i toni noir di un romanzo criminale in salsa balcanica.

Ambientato in una periferia laziale squallida e spettrale, in cui lo spaccio di droga e la prostituzione sembrano le sole attività fiorenti, fra mucchi di rottami ferrosi e malfamati strip club, Razzabastarda mette a nudo la desolante condizione esistenziale, fra miseria e criminalità, di un immigrato violento ma non del tutto privo di morale, che vive con fierezza le sue origini rom e sogna un futuro onesto per il proprio figlio, ma non riesce a fare a meno di spacciare per sopravvivere. Una figura contraddittoria e sgradevole, a cui si contrappone quella, più facile da amare ma in un certo senso più pericolosa per la sua debolezza, del figlio, nato in Italia e per nulla orgoglioso della sua famiglia, e per questo attratto da sogni proibiti che, mal guidati da pessimi maestri – come il Talebano, delinquente colto e viscido interpretato da Sergio Meogrossi – finiscono con l’avere conseguenze distruttive.

Lo sguardo del regista si mantiene in equilibrio fra l’immedesimazione e la condanna: se, da un lato, Gassman sembra esprimere in prima persona l’amore viscerale che lega il padre criminale al figlio ribelle, arrivando quasi a giustificarne gli eccessi invasivi in nome di un affetto assoluto, al di là della legge e delle convenzioni, dall’altro non si fa scrupoli a mostrare gli errori e le debolezze, molto spesso irreparabili, di tutti i personaggi, rendendoli credibili e realistici nella loro natura di perdenti in buona parte responsabili del loro fallimento.

Di fronte a una vicenda simile, è facile per lo spettatore trovarsi a disagio, nella scomoda posizione di chi non sa da che parte schierarsi. La denuncia nei confronti dell’ipocrisia e del razzismo della società, che condanna gli stranieri all’emarginazione, declamata dal protagonista in uno sfogo, convive con un ritratto a dir poco impietoso degli immigrati romeni, con il risultato di alimentare, almeno in parte, la stessa demonizzazione di quell’etnia, da parte dei mass media, che nel film viene criticata.

La prorompente e controversa carica emotiva della sceneggiatura trova linfa vitale nella titanica interpretazione dello stesso Gassman che, nel riprodurre la cadenza balcanica del suo Roman, dà vita a una prova di assoluto virtuosismo, ben supportata dall’intero cast, a cominciare dal promettente Giovanni Anzaldo, un Nicu fragile ed emotivo oltre ogni dire. Grande anche Matteo Taranto (il macho Colas in Paz!), l’unico in grado di rivaleggiare in istrionismo con Gassman, nella parte dell’arrogante pappone Dragos. Oltre a una rabbiosa Nadia Rinaldi e al sempiterno Michele Placido, che interpreta un avvocato amico di Roman, perfino la modella Madalina Ghenea – peraltro l’unica attrice del film di nazionalità romena – dimostra buone qualità recitative nel ritratto di una prostituta al servizio di Dragos, di cui Nicu si innamora.

Una splendida fotografia in bianco e nero, memore di opere per certi versi analoghe come L’odio di Kassovitz o i drammi sottoproletari di Pasolini, perfetta per sottolineare il clima di desolazione senza speranza che opprime i protagonisti, e una martellante colonna sonora a base di musica balcanica completano il quadro di una tragedia assoluta, sincera e coraggiosa, che se ne infischia del politically correct e dà forza alla tesi secondo la quale, in questo mondo, esiste una sola razza bastarda, quella umana.

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