Protagonisti di Cesare deve morire dei fratelli Taviani (Orso d’Oro al Festival di Berlino) sono i detenuti-attori del carcere romano di Rebibbia. La macchina da presa ce li mostra durante i provini per la messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare, durante le prove negli ambienti del carcere – cortili, celle, corridoi che si fanno palcoscenici immaginari – e durante lo spettacolo finale davanti al pubblico, di cui vediamo solo due brevi spezzoni, uno all’inizio e uno alla fine del film. Tra le scene delle prove, emergono, in tutta la loro crudezza, frammenti della vita reale nel carcere.

La grandezza di questo film (girato tutto in bianco e nero, eccetto i due momenti dello spettacolo finale) risiede in primo luogo nell’efficace commistione tra elementi reali e finzionali. Il piano della realtà, della finzione teatrale e della finzione cinematografica si intrecciano infatti in modo indissolubile, portando avanti una sorta di continua delocalizzazione del senso.

Reale è il laboratorio teatrale diretto dal regista Fabio Cavalli. Reali sono i detenuti che vi prendono parte, e le didascalie che compaiono sullo schermo all’inizio del film ne testimoniano l’autenticità: ecco Cesare, condannato a diciassette anni per traffico di stupefacenti, ecco Bruto, condannato a quattordici anni e otto mesi per delitti di criminalità organizzata, ecco Cassio, condannato all’ergastolo per omicidio. Reali sono tutti gli ambienti del carcere e i momenti di vita carceraria che affiorano tra le prove.

La sovrapposizione tra realtà e teatro genera un effetto potente, dal sapore tipicamente postmoderno. Nel Giulio Cesare che prende corpo sullo schermo attraverso i frammenti delle prove, infatti, non solo il linguaggio alto del simbolico, del cerimoniale e della persuasione con cui il Bardo rappresenta le finzioni del Potere si fonde con gli accenti e  i dialetti delle terre di origine dei detenuti (in prevalenza napoletano, palermitano e romanesco), ma addirittura gli attori escono più volte dalle loro parti per lasciare emergere tensioni, frustrazioni e attriti personali o rievocare episodi del loro passato. È evidente la fusione che si viene a creare tra il vissuto dei detenuti e la trama shakespeariana. I personaggi della congiura romana si spogliano così della loro storicità per diventare quasi figure extratemporali, tipi umani.

Ma il gioco è ancora più complesso. È chiaro, infatti, che dietro a molto di ciò che ci appare come reale si nasconde un lavoro di costruzione cinematografica. Innanzitutto, la scelta degli ambienti del carcere in cui si svolgono le prove, ovviamente, non è casuale, ma è frutto di una precisa volontà registica (splendida l’idea di collocare nel cortile del carcere le scene delle orazioni di Bruto e di Antonio davanti alla folla, moltitudine anonima dietro alle sbarre delle finestre). Inoltre, non di rado, anche quando i detenuti, dismesse le vesti teatrali, sembrano mostrarsi a noi per ciò che realmente sono, in verità non fanno altro che interpretare se stessi davanti alla cinepresa, in qualità, stavolta, di attori cinematografici. E qui l’intelligenza del film sta nel mantenere un costante velo di ambiguità che rende spesso impossibile distinguere i dialoghi, i gesti e i movimenti reali da quelli recitati.

Cesare deve morire è dunque questo: un’operazione colta – e perfettamente riuscita – di assemblaggio di piani di senso diversi. Ma non solo: sotto un altro aspetto, il film è anche una vera e propria celebrazione dell’arte come libertà. Destinata a rimanere nella memoria collettiva è la battuta pronunciata da Cosimo Rega, l’attore che interpreta Cassio, dopo la messa in scena finale: “Da quando ho conosciuto l’arte, ‘sta cella è diventata una prigione”. Non è un caso che le uniche scene a colori del film siano proprio quelle dello spettacolo, un’irrealtà contrapposta alla quotidianità del carcere (che, per paradosso, il bianco e nero contribuisce a rendere realistica). Lo spazio dell’arte è lo spazio dell’evasione: riemersione dal vuoto ripetersi dei giorni, resurrezione dalla colpa.

E così, quello che ci resta negli occhi alla fine del film è la scandalosa umanità di uomini che sono stati vittime delle finzioni del Potere e che, proprio attraverso la rappresentazione di quelle stesse finzioni, per un attimo sono stati liberi.

Scritto da Thomas Mai.

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Alice C.Edoardo P.
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