Di nuovo in gioco rinnova l’ormai annuale appuntamento al cinema con Clint Eastwood. Questa volta, però, c’è qualcosa di diverso: a ottantadue anni suonati; il “buono” per eccellenza del western all’italiana lascia la macchina da presa nelle mani di Robert Lorenz, suo storico produttore e aiuto regista, e si presenta unicamente in veste di attore. Dal canto suo, Lorenz sceglie di esordire nella regia senza discostarsi troppo dall’approccio stilistico e narrativo “alla Eastwood” che ha segnato la sua formazione.

Il burbero Gus Lobel (Clint Eastwood), scout degli Atlanta Braves, squadra della Major League americana, nonché uno tra i migliori scout di sempre, non può che riportare alla mente Frankie Dunn, il pugile e manager di Million Dollar Baby. Proprio a questa pellicola, che fece razzia di premi Oscar nel 2005, sembra guardare l’opera prima di Lorenz. Il mondo competitivo, e spesso corrotto, dello sport professionistico fa infatti da sfondo ad entrambe le vicende, che allo stesso modo si dipanano lentamente attorno al rapporto conflittuale tra un uomo al declino della sua carriera e una donna, la figlia Mickey per Lobel e la bella Hilary Swank per Dunn, destinate a ricevere il testimone.

Detto questo, però, le due pellicole procedono in direzioni diametralmente opposte. Se Eastwood aveva scelto un respiro più greve e profondo per Million Dollar Baby, trattando un tema delicato come l’eutanasia, Lorenz preferisce tonalità molto più leggere, confezionando un drammatico a bollino verde dai toni melensi. La storia d’amore che nascerà tra Mickey (una Amy Adams poco convincente sia come avvocato in carriera che come scout di baseball) e Johnny Flanagan (un Justin Timberlake che non deve fare altro che recitare se stesso), con le sue atmosfere alla Dawson’s Creek, ne è la prova, assieme alla palpabile aura di buonismo che sorvola i cieli del North Carolina in cui si svolge la storia.

Probabilmente Lorenz avrebbe fatto meglio a non distogliere l’attenzione dal punto di forza tematico del film, le incomprensioni tra un cattivo padre e una buona figlia, concentrando l’obiettivo quasi unicamente sull’ottima interpretazione di Eastwood, che regala allo spettatore passaggi molto intensi (come quello in cui piange sulla tomba della moglie), e che, letteralmente, salva dal fallimento la pellicola di un amico che ha ancora molta strada davanti a sé.

Scritto da Micol Lorenzato.

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