E insomma c’è questo innominato (o, meglio, nominato solo tramite la principale azione che compie, ovvero il guidare, e quindi l’Autista) che di lavoro fa un po’ lo stunt-driver e un po’ il meccanico, e quando gli butta fa da autista per le rapine. Ma il tizio è tutto matematico, precisino, glaciale e professionista, eh. Cinque minuti di servizio, e il resto sono affari degli altri. Segue tresca platonica con la vicina d’appartamento (con tanto di figlio a cui fare da padre putativo) e la solita borsa piena di soldoni che incasina tutto.

L’ultimo film del già scafato Nicolas Winding Refn (se non l’avete visto recuperatevi almeno Bronson) è un’opera che fa di una certa geometrica semplicità la propria ragion d’essere. Geometriche e molto chiare, per non dire spiattellate, sono infatti le inquadrature, così come lo sono i rapporti fra i personaggi (una serie di triangolazioni che hanno come fondamenta una nuda idea di famiglia nucleare padre-madre-figlio) e l’intreccio stesso. Cosa che a un primo sguardo non dispiace, e che anzi fa scorrere con grazia una pellicola in cui la confezione è lucente ed essenziale al tempo stesso. Non mancano neppure le citazioni, da Friedkin a Hill, il cui ruolo è quello di impreziosire in maniera decorativa un’opera altrimenti fortemente omogenea (le esplosioni di violenza, in questo senso, sono da manuale della sceneggiatura), tanto che la si potrebbe quasi scambiare per un puro omaggio stilistico agli heist movies degli anni 80, esplicitamente richiamati anche nella onnipresente colonna sonora e nei titoli di testa.

Un altro riferimento importante, nelle inquadrature così come nella gestione della visione dentro e sulla città, è Mann, al quale vengono aggiunte dosi non indifferenti di discorso metacinematografico (non solo il protagonista è una controfigura d’azione, ma pure uno dei boss mafiosi rivela un passato da produttore di b-movies) e di melodrammone opportunamente gestito da una fotografia sempre accorta.

Ma quindi cos’è questo Drive, in definitiva? Un esercizio scolastico completo quanto vacuo? Un’ora e mezza di bei faccioni (gli attori se la cavano tutti egregiamente, dal gommoso Gosling alla gattifera Mulligan, passando per un Cranston oramai al di là di ogni lode, fino a un Brooks ottimo mafioso scorsesiano)? Il trionfo della superficie? Un malinteso morale? Il film è tutto questo, e conterà in egual maniera sostenitori e detrattori. Noi, qua, lo si è goduto come qualcosa di già visto, ma dalla presa sicura. E tanto può bastare.

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Chiara C.Davide V.
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Scritto da Gualtiero Bertoldi.