Jeffrey “Drugo” Lebowski (Jeff Bridges) è un ex hippy pigro e disoccupato che vive una tranquilla esistenza giocando a bowling con gli amici Walter Sobchak (John Goodman) e Donny (Steve Buscemi), fumando erba e bevendo white russian. Una sera, due criminali irrompono a casa sua, orinano sul suo tappeto e lo accusano di dovere dei soldi al loro capo Jackie Treehorn, salvo poi accorgersi che il debitore è un omonimo. Fomentato da Walter, Drugo decide di farsi risarcire dall’altro Jeffrey Lebowski (David Huddleston), un miliardario reazionario in sedia a rotelle, ma finisce con l’essere assoldato da quest’ultimo come corriere per pagare il riscatto ai rapitori della giovane e viziata moglie del riccone, Bunny (Tara Reid). Drugo e Walter si ritrovano così al centro di un’intricata vicenda in cui è coinvolta anche la figlia artistoide di Lebowski, Maude (Julianne Moore), mentre il torneo di bowling si avvicina alle semifinali e il loro rivale più accanito è il folle ispanico Jesus Quintana (John Turturro).

Presentato in anteprima al Sundance Film Festival e in seguito al Festival di Berlino nel 1998, Il grande Lebowski è a tutt’oggi da considerarsi il capolavoro dei fratelli Joel ed Ethan Coen, nonché una delle opere più importanti della cinematografia mondiale degli ultimi vent’anni. Se la struttura portante ricalca quella del più classico dei noir, quale fu Il grande sonno di Raymond Chandler, lo sviluppo della vicenda è assolutamente imprevedibile, ma al tempo stesso tutto funziona alla perfezione nei minimi dettagli, e non c’è un elemento della sceneggiatura che sia inutile o fuori posto. La regia passa con estrema naturalezza dalla messa in scena dei fatti reali ai trip mentali del protagonista, così come l’ambientazione nella Los Angeles dei primi anni Novanta (con la guerra del Golfo in corso), ma ricca di echi degli anni Sessanta e Settanta, è azzeccata e funzionale allo sviluppo narrativo.

Ciò che ha reso il film memorabile, più di qualsiasi altro aspetto, è la straordinaria caratterizzazione dei personaggi, primo fra tutti il Drugo (in originale The Dude), interpretato da un Jeff Bridges in stato di grazia, che con questa prova ha finalmente cancellato lo scetticismo di certa critica che ne faceva un attore incompiuto ed è entrato nell’olimpo dei mostri sacri. Questo disoccupato di mezza età che la prende come viene, consapevole della propria marginalità in un mondo dominato dalla follia e dall’idiozia, a volte cinico, ma non privo di coscienza morale e pronto a mettersi in gioco per una giusta causa (reminiscenze di un passato di attivista per la pace), è sicuramente uno dei personaggi in assoluto più riusciti della Hollywood contemporanea, grazie anche alla sua fisicità accattivante e fintamente trasandata (capelli e barba lunghi, occhiali da sole, pancetta, vestiti larghi in stile vintage provenienti per la maggior parte dal guardaroba dell’attore). Gli fa da contraltare il Walter Sobchak di John Goodman, reduce del Vietnam ottuso e paranoico, ebreo convertito osservante, orgoglioso del suo passato di militare e incapace di separarsene, estremamente invadente nei riguardi dell’amico ma convinto di agire per il bene, anche quando dà sfogo alla propria violenza folle e animalesca: quella del corpulento attore del Missouri è un’interpretazione maiuscola, assolutamente istrionica, agli antipodi di quella misurata di Bridges, ma altrettanto efficace. I due, insieme, formano una coppia eccezionale, in cui la diversità di vedute, carattere e stile di vita non preclude un’amicizia sincera, perfino commovente per alcuni aspetti. Se la fonte di ispirazione per il personaggio del Drugo è Jeff Dowd, fondatore del gruppo radicale contro la guerra Seattle Seven e amico dei fratelli Coen (il cui soprannome è proprio The Dude), Walter è invece il ritratto fisico e caratteriale del vulcanico regista John Milius.

Gli altri formano il coro, a cominciare dal terzo incomodo Donny, un grande Steve Buscemi, ritratto in secondo piano anche nelle inquadrature, interessato solo al bowling e incline a interventi fuori posto nelle conversazioni fra gli altri due (e puntualmente tacitato da Walter). Grandi anche la Maude di Julianne Moore, pittrice femminista e ninfomane dal taglio di capelli à la Louise Brooks; il Jackie Treehorn di Ben Gazzara, boss della pornografia che sembra uscito da un romanzo di James Ellroy; il tedesco nichilista Uli Kunkel di Peter Stormare e la sua gang di ex musicisti e criminali dilettanti (composta da Flea dei Red Hot Chili Peppers e Torsten Voges), ispirati alla vera band techno tedesca Kraftwerk; e soprattutto Jesus, il giocatore di bowling pervertito ed egocentrico interpretato da un John Turturro in tuta viola che parla con un buffo accento spagnolo.

Pur non trattandosi di un film propriamente comico, sono numerosissime le gag esilaranti, quasi tutte affidate al personaggio di Walter e alla sua intransigenza militaresca, dal confronto con un ragazzino indolente che sembra aver rubato la macchina di Drugo a quello con il miliardario disabile nella villa. Eccezionali anche la sequenza del secondo trip – coreografato come un musical di Busby Berkeley sui temi del bowling, la guerra del Golfo, l’arte vaginale di Maude e i nichilisti – e quella finale sulla scogliera, in cui la malinconia si stempera in un grottesco contrattempo causato, ovviamente, da Walter. Un’ulteriore chiave per il successo del film è stata la colonna sonora, che spazia nella musica dei più svariati generi e nazionalità – dal country più tradizionale all’avanguardia – a cominciare dal brano dei titoli di testa, The Man In Me di Bob Dylan, e da quello che fa da sottofondo al trip, I Just Dropped In di Kenny Rogers – entrambi riportati al successo per l’occasione – per finire ai Creedence Clearwater Revival, gruppo rock preferito del protagonista, di cui si sentono un paio di brani non inclusi, però, nel relativo cd.

Premiato all’uscita da un buon risultato al botteghino ma vergognosamente escluso dalle nomination agli Oscar, Il grande Lebowski è diventato, negli anni successivi, oggetto di culto assoluto, negli Stati Uniti come nel resto del mondo, dando origine a eventi come il Lebowski Fest, ad articoli e saggi come La vita secondo il grande Lebowski, e perfino a una religione, il Dudeismo, i cui precetti si basano sulla filosofia di vita del Drugo e che ha visto nascere una congregazione anche in Italia.

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Chiara C.Leonardo L.Sara M.
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