Da “Junebug” a “Junbruco”: l’appeal translinguistico del caso cinematografico 2007 Juno.

Sin dalle prime immagini – un’adolescente che ingurgita un’intera confezione di succo d’arancia camminando nella più perfetta quintessenza della tipica suburbia yankee, comprensiva di drugstore senza tempo – Juno si presenta come un film marcatamente americano, tanto nelle immagini, quanto a livello linguistico.

Non solo: il motore diegetico è costituito dall’incontro-scontro di vicissitudini adulte (una gravidanza imprevista) con un mondo spiccatamente adolescenziale, definito sì dall’ambientazione fatta di high school e armamentario da teenager (in primis il telefono-hamburger della protagonista), ma anche e soprattutto dal linguaggio volutamente infarcito di slang e intercalari giovanili (uno su tutti: il frequentissimo riempitivo “like”).

I dialoghi presentavano quindi una duplice sfida per il traduttore, in virtù del loro valore narrativo e del loro barthesiano effet du réel, e non sono mancate le critiche da parte di alcuni spettatori italiani. Eppure, contrariamente a quanto accade nella maggior parte dei casi simili, trovo che la traduzione e l’adattamento abbiano prodotto risultati piuttosto scorrevoli e un effetto generale che ben riprende il suono “altro” della parlata originale.

La fruibilità della versione italiana si deve parzialmente alla scelta della doppiatrice principale, Alessia Amendola, che nel complesso mantiene il tono spigliato da tough girl di Ellen Page, pur conferendo a Juno una cadenza meno matura dell’originale. Il doppiaggio di Paulie Bleeker, il giovanissimo padre del bambino, risulta però meno riuscito: la versione italiana di Davide Perino suona più impacciata rispetto alla voce originale di Michael Cera, pur conservandone il tono sensibile e premuroso.

Paiono invece indovinati quasi tutti gli altri doppiatori, con l’eccezione dell’interprete italiana di Su-Chin, il cui accento asiatico si trasforma nella versione nostrana nella parlata di una bambina in età prescolare. Fortunatamente il suo ruolo si riduce a poche battute, lasciando spazio agli altri personaggi femminili che compensano pienamente questa scelta infelice: Domitilla D’Amico, che presta la voce a Leah (Olivia Thirlby), migliore amica di Juno, preservandone il tono un po’ allusivo e irriverente; Franca D’Amato, che ben traspone il connubio di determinazione e fragilità di Vanessa (Jennifer Garner), per cui l’immenso desiderio di maternità è insieme croce e delizia; e infine Aurora Cancian, una matrigna Bren (Allison Janney) che sa il fatto suo anche nella versione italiana. Convincenti anche i ruoli maschili: Massimo Corvo nella parte del padre (J.K. Simmons) che cerca di mostrarsi risoluto e comprensivo anche quando si sente spiazzato dagli eventi, e Massimo De Ambrosis nel ruolo di un trentenne con l’animo da teenager (Jason Bateman) che invece non si sente ancora pronto per fare il padre (adottivo).

Il merito principale della complessiva efficacia del doppiaggio spetta tuttavia alla traduzione e all’adattamento di Roberto Chevalier: a dispetto delle critiche di artificiosità, trovo che il suo lavoro di reinvenzione di un linguaggio giovanile che potesse essere equivalente all’originale americano funzioni piuttosto bene anche quando ricorre ad espressioni non condivise dall’intero pubblico italiano. Il linguaggio dei giovani, e in particolare degli adolescenti, è sempre fortemente influenzato dall’ambiente che lo produce, sia in termini di aree geografiche, sia a livello più specifico, relativo ad una determinata cerchia sociale. È quindi plausibile che la Dancing Elk High School mescoli modi di dire stereotipati con una propria microlingua e che Juno, che spicca fra i coetanei per la sua capacità di pensare in maniera indipendente, si esprima in modo altrettanto originale. Così, accanto ai numerosissimi “tipo, cioè” (che non tutti gli spettatori hanno apprezzato, ma che indubbiamente vengono usati dalla popolazione adolescente, oltre a permettere una buona sincronizzazione con “like”), troviamo espressioni come “Un po’ di tunz tunz?” (“How about some tunes?”) o “Un’ipotesi molto circa all’inquasi” (“That’s a guestimation”).

Chevalier costruisce poi un leitmotiv assente nel testo originale, ma che ben trasmette l’ironia un po’ scanzonata e un po’ timorosa della Juno gestante, ovvero il tema del bambino come “fagiolo”, che permette metafore relative alla “cottura” altrimenti improponibili e una ben riuscita sovrapposizione della battuta in cui la protagonista annuncia l’imminenza del parto: “Thundercats are gooooooo” diventa “Arriva il fagioloooooo!”. Efficaci anche le versioni/creazioni dei modi di dire degli altri personaggi: Leah risulta ancor più connotata nella sua risposta al telefono in italiano “Qui Leah che non la dà via” rispetto all’originale “Yo-yo-yiggity-yo”, mentre la scelta meno felice della battuta del commesso del drugstore “L’ovulotto è pienotto” (per “Your egg-o is pregg-o”) viene subito compensata da “fertile Myrtle”, ben tradotto con “feconda Gioconda”. Ma forse ancora più riusciti risultano i soprannomi attruibiti a Juno: il “Wizard” di Paulie si tinge di dolcezza diventando “Maghetta”, mentre il “Junebug” della famiglia MacGuff baratta il riferimento all’auto “Dune Buggy”, in grado di sfidare i terreni più accidentati, con la connotazione di crisalide, di creatura in transizione verso la maturità evocata dall’assonante”Junbruco”.

Discutibile forse solo la scelta di non doppiare né sottotitolare il jingle che Mark cerca di comporre e soprattutto la canzone finale che Juno canta e suona insieme a Paulie (“Anyone Else But You”) e il cui testo funge da coronamento della ripristinata relazione fra i due ragazzi. Il motivo è forse da ricercarsi nell’inserimento dei due pezzi nella colonna sonora internazionale; tuttavia la decisione permette anche al pubblico italiano di ascoltare la voce originale di Ellen Page, oltre che di apprezzare una traccia non meno suggestiva del resto della sountrack.

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