Skins: Rise è la storia di Cook, dell’eroe che cade e si rialza (e conclude la serie), ultimo tassello di quella che ormai potremmo definire la “Trilogia della trasformazione” di Skins (QUI e QUI le metamorfosi di Effy e Cassie).

L’ex cazzone dalle chiappe tatuate è ora uno spacciatore perseguitato dal ricordo di un omicidio: “My name is James Cook. I did something once. My ghosts won’t let me forget it“. Si presenta così il nuovo Cook, attraverso un monologo interiore che anticipa l’evoluzione del personaggio e il contenuto dell’episodio, ovvero un protagonista più ermetico e riflessivo alla prese con un percorso che lo porterà a essere “A real human being and a real hero”, come il Driver di Nicolas Winding Refn (con il quale l’episodio ha più di un punto in comune, nonostante Jamie Brittain faccia lo gnorri). Peccato che, con l’arrivo di inutili comprimari, le riflessioni del protagonista vengano messe in disparte a favore di un intreccio da soap, piuttosto fuori luogo rispetto alle premesse iniziali.

Insomma, Cook è uno spacciatore solitario che un po’ spaccia e un po’ scopazza con Emma, la fidanzata. Quando Cook accetta di fare da autista a Charlie, la ragazza del boss che gestisce il traffico di droga, fra i due nasce un’attrazione pericolosa. Louie, il capo, interpretato dal poco credibile Liam Boyle, è infatti uno psicopatico pronto a uccidere chiunque tocchi “la sua donna”, come Jason, assassinato per aver avuto un rapporto con Charlie. Cook, temendo che Louie possa scoprire la relazione con la ragazza, scappa nel Midlands insieme a Charlie ed Emma. Louie riesce però a rintracciarli e inizia una caccia al topo che porterà Cook a scontrarsi nuovamente con la violenza.

Basta il riassunto della trama per capire che Rise, oltre a essere storia di redenzione, narra di un triangolo amoroso in modo abbastanza puerile (a Charlie basta un’occhiata per capire che Cook nasconde un terribile segreto) con tanto di tira e molla, battibecchi e dinamiche finalizzate esclusivamente a far interagire Cook, Emma e Charlie. Scelte narrative che tolgono spazio all’introspezione, a volte un po’ troppo didascalica, dell’ottimo Jack O’Connell, e che fanno perdere credibilità alla storia. Solo il (Sun)Rise finale ne mostra la poesia.

Lasciamo dunque da parte i triangoli e torniamo alla trasformazione di Cook in Real Hero. Il sussurrato “My name is James Cook” iniziale, pronunciato da un uomo stanco e apatico, esplode nello scontro finale in un I’m fucking Cook, mate! nel quale ritroviamo il grido di battaglia adolescenziale del personaggio, la sua rivendicazione a esistere: quel “I’m Cook” che, alla fine della quarta stagione, è il preludio a un omicidio, ma non questa volta. Cook sceglie, infatti, di non agire impulsivamente come in passato, e di risparmiare la vita a Louie: un atto catartico che gli permette di lasciarsi il passato alle spalle. E a noi Skins. And that’s all iv’e got to say about it.

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