C’è qualcosa di molto affascinante nelle sigle delle serie tv. Al pari dei titoli di testa dei film, hanno il compito di trasportarci nel mondo della finzione, ma si trovano ad assolverlo giorno dopo giorno, episodio dopo episodio, ora dopo ora. Non solo apertura, ma segno distintivo e riconoscibile che si ripete e ci accompagna attraverso le tappe di un racconto lungo. Anche questa caratteristica ha contribuito al passaggio da una sigla come elenco di facce e nomi, all’idea che un segmento “di servizio”, di informazione su cast and credits potesse diventare espressione creativa, breve opera visiva quasi a sé stante, tanto da contenere in alcuni casi solo pochissimi dati produttivi (proprio come nei film, in cui si può scegliere di riservare tutte le indicazioni, compresi regista ed attori principali, ai titoli di coda). La sempre maggior cura dedicata al segmento dei credits va però associata soprattutto alla legittimazione delle serie televisive nel corso della cosiddetta nuova Golden Age seriale, che sarebbe cominciata alla fine degli anni Ottanta, ma che avrebbe subito un’impennata tra la fine degli anni Novanta e i giorni nostri (anche se c’è chi parla di una sua fine già da un paio d’anni). La solita Twin Peaks (1990-1991) già si distingueva anche in questo, con una sigla particolarmente lunga e priva di presenze umane: una intro che si occupava di inquadrare l’atmosfera e i luoghi della serie, con un tema musicale creato ad hoc ed entrato nella storia.

Per quanto mi riguarda, la sigla che prima di tutte mi ha trasmesso le potenzialità di questa vera e propria “nuova zona creativa”, è quella di Six Feet Under (2001-2005). Lunga, ipnotica, evocativa: in meno di due minuti tocca la vita e la morte, la famiglia e la solitudine, il passare del tempo e la mancanza; con l’albero che da presenza realistica si fa logo stilizzato e contenitore del titolo che si origina dalle radici. Quel segmento iniziale ricorrente viene così investito di una funzione più importante della semplice presentazione: diventa commento alla storia, all’azione, ai personaggi, spesso sottolineando i temi della serie, talvolta andando oltre, evidenziando aspetti non esplicitamente riconducibili alla serie stessa. Se all’inizio la bella sigla appare come uno dei marcatori di qualità di una serie, col passare del tempo diventa soprattutto un trend, una parte della confezione del prodotto, come dimostrano ad esempio i titoli di testa animati di The Secret Life of an American Teenager (2008) o quelli sofisticati e conturbanti del mediocre teen drama Pretty Little Liars (2010).

Difficile e forse anche poco utile tentare una categorizzazione degli elementi di tendenza nelle sigle dell’ultimo decennio. Sicuramente si può riscontrare un uso ricorrente di immagini d’epoca o fotografie, che da un lato riescono ad inquadrare bene un’ambientazione (nei casi dove questa ha un’importanza particolare: ad esempio Treme, 2010) o un periodo storico (Carnivàle, 2003-2005), dall’altro conferiscono un’indubbia idea di realismo rispetto al racconto cui si sta per assistere (Southland, 2009, o Parenthood, 2010, con vere foto degli attori da ragazzini). D’altro canto si trovano sigle animate, o prive di referenti, o costruite interamente da artifici grafici. Il solo tratto comune è l’attingere a tutti i tipi di medium e di linguaggio (tipico l’uso della forma-libro: United States of Tara, 2009; Bored to Death, 2009), come se nell’ambito del testo seriale, sicuramente meno predisposto del cinema alle sperimentazioni linguistiche, si utilizzasse proprio quello “spazio” per lasciar sbizzarrire i creativi con libere interpretazioni e concettualizzazioni.

Tramite le acclamatissime sigle di due serie altrettanto acclamate, Mad Men (2007) e True Blood (2008), parleremo ora brevemente di quelli che sembrano due studi grafici ricorrenti nella realizzazione delle opening sequences. In entrambe le sigle citate non appaiono personaggi della serie, ma suoni e immagini elaborate che veicolano precisi significati e sensazioni. La prima unisce perfettamente la contemporaneità (si veda l’uso della grafica e del campionamento musicale) e il passato cinematografico citando la cifra stilistica del maestro Saul Bass, titolista di innumerevoli film di Hitchcock e di molti altri: la caduta in contrapposizione all’apparente glamour della New York anni ‘60 e dei suoi uomini di successo è certamente un’azzeccata chiave di lettura per Mad Men. La sigla è firmata Imaginary Forces, studio grafico e casa di produzione fondata dal visionario Kyle Cooper (considerato per l’appunto uno degli eredi di Saul Bass), già responsabile di alcuni titoli di testa cinematografici riconoscibili e disturbanti (Se7en e Mimic su tutti). Lo stesso studio firma alcune delle sigle più belle degli ultimi anni: The Pacific (miniserie del 2010), Chuck (2007, debitrice di certo immaginario cinematografico), la già citata Southland, le recentissime Rubicon (2010) e Boardwalk Empire (2010, con il suo immaginario magrittiano). Uscito dalla Imaginary Forces per fondare la Prologue, Cooper ha continuato ad occuparsi sia di sequenze cinematografiche che di sigle, realizzando tra le altre quelle di Pushing Daisies (2007-2009) e The Walking Dead (2010).  La seconda si compone di sequenze più o meno inquietanti ed ambigue: decomposizioni, fanatismo religioso, sesso, morte e perversioni varie (sulle note di “Bad Things” di Jace Everett). Il tema vampiresco non è direttamente chiamato in causa, le immagini si concentrano invece su una visione ben precisa del profondo Sud degli Stati Uniti come coacervo di bigotti, folli e pervertiti, che è esattamente l’idea veicolata dalla serie. I titoli di True Blood portano la firma di Digital Kitchen, studio che ha realizzato, oltre alla seminale sigla di Six Feet Under, quella, originale e perfetta, per Dexter (2006), Rescue Me (2004), Path of 9/11 (miniserie del 2006), oltre ad alcune opening a tema medico, quali Nip/Tuck (2003-2010), geniale nel suo minimalismo, e House M.D. (2007). Tutte le design companies citate si occupano anche di pubblicità e sequenze cinematografiche; in particolare Digital Kitchen ha curato il riuscitissimo marketing virale di True Blood.

Abbiamo considerato per comodità solo serie americane, ma ultimamente anche altre produzioni, ad esempio quelle inglesi, hanno dimostrato una particolare attenzione per i titoli di testa  (Misfits, 2009, per citarne solo una).

Il web ha amplificato la possibilità di considerare le sigle, al pari di particolari sequenze di un film o di un episodio, come segmenti da fruire separatamente dal testo; la sigla è diventata a tutti gli effetti una parte importante del percorso di diffusioni di un testo seriale, ma può persino staccarsi da esso, fino ad arrivare al paradosso di essere più godibile della serie stessa.

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Scritto da Chiara Checcaglini.