La vita oscena di Renato De Maria è un film oscenamente brutto. Brutta la sceneggiatura. Brutta la regia. Brutta la recitazione. L’unico elemento per certi versi accettabile è la fotografia di Daniele Ciprì: ma è come avvolgere con della bella carta un regalo scadente. Lascia ancor di più l’amaro in bocca. Aldo Nove, co-sceneggiatore con il regista e autore del romanzo omonimo, avrebbe dovuto sapere che non sarebbe stato facile riportare sullo schermo le atmosfere psichedeliche del suo libro. Talvolta bisognerebbe rendersi umilmente conto che scrivere per il cinema è un’altra cosa, un altro mestiere.

Ma ormai una nuova parola d’ordine, quasi una necessità, pare essersi diffusa presso i registi italiani: innovazione. Così sembra che De Maria scientemente abbia deciso costruire il film perseguendo questo obiettivo, mettendoci dentro di tutto e di più. Peccato per lui, ma soprattutto per gli spettatori, che la sua opera risulti per questo artificiosa, barocca eppure senza essenza, fredda, pretenziosa. Ma esattamente come e in cosa pensava di essere innovativo? Edipo? Il ragazzo cresciutello che passa felicemente le giornate a fare la spesa, a correre nei prati con l’adorata madre, onnipresente persino da defunta, sintesi di tutti i lacrimosi stereotipi possibili: anticonformista, depressa, malata, morta. Con buona pace di Isabella Ferrari e della sua determinazione nel voler sperimentare. Il suicidio? Il giovane protagonista, Clément Métayer, espressivo come un blocco di cemento, che senza mamma non riesce più a “sentire” la vita divenuta così oscena, tenta di uccidersi con una vagonata di cocaina e di sesso, più che estremo, farsesco. Ma proprio non ci riesce. E sì che di metodi piuttosto efficaci, a voler ben cercare, ce ne sarebbero tanti. La genialata della psichedelia visiva tipo le persone con la testa di animale? David Lynch con Inland Empire ha già strepitosamente dato. La voce off con cui il protagonista incessantemente auto-commenta gli avvenimenti? I personaggi che volgono lo sguardo allo spettatore? La musica martellante? Il lieto fine? Visto, visto, visto e ancora visto.

Il produttore Riccardo Scamarcio, che ha lanciato un appello ai distributori italiani di dare un’opportunità al film, ha anche dichiarato: “E’ il tipo di cinema che mi piace, quello che racconta tematiche dolorose ma alla fine fa provare sollievo e piacere”. Ha ragione sull’ultima parte: è vero sollievo e immenso piacere alzarsi dalla poltrona e uscire dal cinema.

Scritto da Vanessa Forte.

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Davide V.
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