Vi interessa la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ma non potete essere al Lido? Cinema Errante vi propone i Diari da Venezia 75, con i film visti in anteprima per voi.

The Ballad of Buster Scruggs Venezia 75

The Ballad of Buster Scruggs di Joel e Ethan Coen

Con The Ballad of Buster Scruggs, i fratelli Coen si ripresentano al Lido dieci anni dopo Burn After Reading, stavolta in concorso, tornando al genere western da loro già esplorato ne Il Grinta e, in parte, in Non è un Paese per vecchi. Prodotto da Netflix e realizzato, stando alle dichiarazioni degli stessi registi, secondo il modello italiano degli anni ’60 e ’70 (tipo Boccaccio ’70), The Ballad of Buster Scruggs è un film antologico costituito da sei episodi, sei storie di frontiera tratte da altrettanti racconti scritti da Ethan Coen nell’arco di vent’anni, molto diversi fra loro nel tono e nel contenuto, e uniti dal filo conduttore della lettura di un immaginario libro illustrato che li raccoglie tutti. Il primo, che dà il titolo alla raccolta, è un omaggio grottesco ai film di cowboy canterini alla Roy Rogers, con l’aggiunta di omicidi pulp e continue rotture della quarta parete da parte del protagonista (il menestrello pistolero interpretato da Tim Blake Nelson); il secondo riprende l’ironia e il cinismo dello spaghetti western con la vicenda di uno sfortunato rapinatore di banche (un James Franco con la faccia giusta); il terzo riporta ai tragici freakshow raccontati da Tod Browning con la storia di un imbonitore girovago (un Liam Neeson mai così negativo) che esibisce un performer privo di arti; il quarto è un’elegia che sembra guardare a Peckinpah, seguendo un anziano ma irriducibile cercatore d’oro (un Tom Waits irsuto come Jason Robards jr); il quinto, incentrato su una ragazza (Zoe Kazan) che si unisce a una carovana, ha un respiro quasi fordiano, con tanto di schermaglie amorose e attacchi indiani; il sesto, infine, che si svolge su una diligenza e ha per protagonisti cinque personaggi (fra cui una vedova impersonata da Tyne Daly) impegnati in brillanti scontri verbali, è un po’ Ombre rosse intinto nel sarcasmo di The Hateful Eight, ma con un sottotesto macabro. Difficile trovare un tratto comune nei sei episodi, differenti anche nella lunghezza, se non l’ironia crudele del destino che incombe su praticamente tutti i personaggi, colpendoli in maniera indiscriminata e beffarda, e l’evidenza che i Coen e i loro attori (con Nelson e Waits nettamente in risalto) si siano divertiti un sacco, forse più degli spettatori stessi, che comunque possono uscire dalla proiezione col sorriso sulle labbra, dopo aver assistito a uno spettacolo cinematografico di ottima qualità, visivamente raffinatissimo, intriso di umorismo nero ma anche di malinconia, e mai del tutto cinico. (Davide Vivaldi)

A star is Born Venezia 75

A Star is Born di Bradley Cooper

A Star is Born, terzo remake (verrebbe da dire respawn, a furia di nascite siderali) del classico del cinema musicale, segna l’esordio di Bradley Cooper dietro la macchina da presa, nonché la conferma delle doti recitative dell’attore. La storia segue due parabole inverse e incrociate: il rocker Jackson Maine, con una voce incisiva, melodica o ruvida a seconda delle necessità, ma sempre in grado di incantare folle oceaniche, scivola sempre più nell’abisso di alcol, droga, problemi familiari e auricolari, mentre l’insicura cantante Ally (Lady Gaga) comincia l’ascesa verso un successo stellare proprio grazie all’intervento (e all’amore) di Maine e alla sapiente gestione del pur inquietante manager Rez (Rafi Gavron). Se l’alchimia sentimentale e musicale della coppia funziona in modo soddisfacente, la performance recitativa risulta invece quanto mai sbilanciata: a un Cooper intenso e commovente si affianca una Lady Gaga talmente impegnata a interpretare prima una fanciulla pavida e anonima e poi la versione edulcorata di se stessa da risultare forzata e innaturale, nonostante l’innegabile potenza canora adatta al ruolo e ai duetti con il co-protagonista. A penalizzare il risultato complessivo si aggiunge la straziante lunghezza della pellicola: persino in questa strabordante edizione del festival veneziano, rigonfia di film sopra le due ore, 135 minuti stemperano la pregnanza delle scene clou dilatando la narrazione con inutili rimpalli. La duplice prova di Cooper, compresa la buona fusione registica di melodramma e concert movie, finisce quindi annacquata tanto dall’elefantiasi narrativa, quanto dallo sbilanciamento della resa attoriale. (Alice Casarini)

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