Mute è il quarto film diretto da Duncan Jones. È uscito in tutto il mondo il 23 febbraio direttamente su Netflix, collezionando una serie di stroncature da record (si può dire che in confronto Altered Carbon sia stato accolto bene). Come mai il film è stato recepito così male? Si merita davvero titoli come quello del Guardian (“Duncan Jones’s sci-fi thriller is a Netflix disaster”)?

Mute Duncan Jones

Duncan Jones ha esordito nel 2009 con Moon, un film di fantascienza indie dal budget ristretto, tutto basato sulla dimensione psicologica: sci-fi minimale, filosofica e conturbante, che è piaciuta più o meno a chiunque. Dopo un esordio come quello, le aspettative su Jones erano altissime. Purtroppo, i film che ha realizzato in seguito non sono stati degni successori di un piccolo culto come il suo esordio: dopo Source Code (2011) e Warcraft (2016), il pubblico stava ancora aspettando il ritorno di Jones allo stile e ai concetti di Moon.

Mute sembrava l’occasione giusta. Era il progetto del cuore di Jones, quello che ha cercato di realizzare per 16 anni, nato ancora prima di Moon. Jones racconta di averci messo così tanto per due ragioni: i film mid-budget (si intende sui 40 milioni di dollari, come questo) non interessano più ai produttori; e Mute aveva un soggetto talmente strano e difficile da spaventare gli studios. Ma alla fine è arrivato Netflix, che ha permesso a Jones di realizzare il suo progetto, a quanto pare senza chiedergli particolari modifiche. Nasce così Mute, thriller fantascientifico ambientato in una Berlino futuribile, con Alexander Skårsgard nel ruolo del protagonista senza voce.

Mute Duncan Jones

Nonostante le varie riscritture nel corso del tempo, Mute è un lavoro acerbo, pieno di incertezze drammaturgiche. Noiosissimo nella prima parte, impiega due terzi del minutaggio a far collidere due trame che paiono talmente scollegate da rendere impossibile mettere a fuoco quale sia la storia del film, fino al suo terzo atto. Come varie recensioni fanno notare, Mute riesce nel paradosso di apparire contemporaneamente costosissimo e amatoriale. Da incolpare sono la regia e la fotografia, casuali e farraginose nonostante lo sforzo di costruire una cornice visualmente impegnativa e l’impiego di qualche effetto speciale realizzato con cura. Ci mette del suo anche un Alexander Skårsgard con gli occhi perennemente sbarrati, che non sembra per niente a suo agio sotto la direzione del regista.

Jones dichiara di essersi ispirato a un certo tipo di thriller anni ’60-’70 (cita Point Blank e Hardcore) per l’impianto generale, e ai protagonisti di M*A*S*H di Robert Altman per i personaggi di Cactus e Duck, interpretati da Paul Rudd e Justin Theroux. Ma uno dei problemi più evidenti dell’operazione è che la vicenda di Mute non ha alcun bisogno di essere ambientata nel futuro. Tutto l’universo pseudo-cyberpunk che Jones mette insieme non serve a nulla, i temi del film non sono collegati con i suoi aspetti fantascientifici, che risultano inutilmente decorativi. La storia potrebbe essere ambientata nel 1930 come nel 2018 e non cambierebbe alcuno snodo della trama (non è un caso: lo script in origine era ambientato nel presente). Persino la scelta stucchevole di usare un protagonista amish per suggerire l’idea del “pesce fuor d’acqua” poteva funzionare senza usare l’espediente del futuro, che si rivela soltanto un vezzo kitsch.

–— SPOILER ALERT —–

Mute Duncan Jones

Una delle poche scelte felici di Jones è quella di usare Paul Rudd nel ruolo del villain: la sua interpretazione è ottima, si mangia quella di Skårsgard e oscura anche quella di un Theroux insolitamente sorridente, nonostante la prestazione del secondo sia di buon livello. Con Rudd e Theroux, Jones gioca con uno spunto di rilettura cinematografica: prendere due personaggi positivi e comici, Trapper e Hawkeye di M*A*S*H, e farne un vero e proprio reboot in cui hanno lo stesso carattere, ma sono cattivissimi.

L’idea in sé potrebbe funzionare. Purtroppo, quello che non va è il modo in cui Jones gestisce questo materiale. Così innamorato della sua idea, lascia che essa dirotti il film senza trovare una vera e propria continuità tra le varie parti della storia, che vagano senza direzione fino all’ottantacinquesimo minuto. È lì che Jones ci vuole sconvolgere col twist che ricompone i pezzi del mosaico. Il problema è che gli spettatori potrebbero non arrivare mai a quel punto, addormentandosi o spegnendo il televisore prima – non dimentichiamoci che il pubblico questo film lo guarda dal divano.

Le scelte di Jones appaiono qualsiasi: non c’è un vero motivo per cui usare il reboot dei personaggi di M*A*S*H in questa storia, così come risulta inutile che l’eroe sia un amish muto; l’ambientazione futurista non aggiunge nulla alla vicenda, talmente fuori fuoco da far sì che il suo colpo di scena risulti fine a se stesso, in un film troppo disordinato. Fa riflettere il fatto che lo script nel 2009 ricevesse critiche molto simili a quelle che gli vengono rivolte oggi.

Peccato, quindi, per la doppia delusione: l’opera di Jones non funziona e Netflix continua a proporre film originali scadenti (come The Cloverfield Paradox). A quanto pare, dovremo aspettare l’uscita di Annihilation per vedere invertita almeno la seconda tendenza.

Sara M.
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