Farley Granger, indimenticabile interprete del cinema internazionale dell’immediato dopoguerra, è morto a New York il 27 marzo scorso, all’età di 85 anni.

Nato a San José (California) il 1° luglio 1925, grazie alle conoscenze del padre, impiegato presso l’ufficio di collocamento di Hollywood, esordì nel cinema appena diciottenne nella parte di un giovane soldato russo nel film bellico Fuoco a Oriente (1943) di Lewis Milestone, cui seguì, l’anno successivo, un altro ruolo da militare, in questo caso americano, in Prigionieri di Satana (1944) dello stesso regista.

Alto e longilineo, capelli bruni, sguardo intenso, Granger si affermò in breve tempo come uno dei più interessanti interpreti giovani di Hollywood, specializzandosi in ruoli affascinanti quanto ambigui, tormentati dal lato oscuro della loro accattivante personalità. Il suo primo film da protagonista fu il noir La donna del bandito (1949) di Nicholas Ray, storia d’amore fra un evaso dal destino segnato e un’ingenua ragazza di provincia, impersonata da Cathy O’Donnell: l’alchimia fra i due fece scintille, tanto che la formula, con la stessa coppia di attori, fu replicata da Anthony Mann ne La via della morte (1950), con risultati però inferiori.

Fu Alfred Hitchcock a trovare in lui l’interprete ideale del suo cinema, ad altissima concentrazione di suspence e di ambiguità morale, assegnandogli il ruolo dello studente affascinato dal delitto perfetto in Nodo alla gola (1948) e, tre anni dopo, quello del tennista coinvolto in un contratto di omicidio ne L’altro uomo (1951): in entrambi i casi si trattava di personaggi dal sottotesto velatamente gay, e la prova del giovane attore, che era bisessuale, fu determinante nel donare loro credibilità senza cadere nell’accademia.

Ormai il salto di qualità era compiuto, e per Granger, interprete ben poco incline al compromesso, insoddisfatto dei film troppo commerciali che Hollywood gli offriva, restava la via del cinema d’autore europeo, infatti proprio a lui Luchino Visconti affidò il ruolo del protagonista maschile, il tenente austriaco Franz Mahler – cinico e approfittatore ma dotato di grande fascino, al punto di far perdere la testa alla nobildonna italiana Livia Serpieri, impersonata da Alida Valli – in quel potente affresco risorgimentale che fu Senso (1954). Fu un’interpretazione memorabile, l’apice della sua carriera, alla quale seguirono un paio di altri film, di cui uno solo degno di nota (L’altalena di velluto rosso, 1956, di Richard Fleischer, nel ruolo di un giovane ricco e vizioso ma accecato dalla gelosia), dopodiché Farley lasciò il cinema, preferendo dedicarsi al teatro e alle serie televisive, per almeno un decennio.

Il resto della filmografia dell’attore è decisamente trascurabile, specialmente i titoli da lui interpretati in Italia negli anni Settanta, in piena fioritura dell’exploitation nostrana. Solamente un ruolo resta memorabile, anche se si rivolge a un pubblico totalmente diverso da quello degli estimatori delle sue opere giovanili, quello del malvagio e prepotente maggiore Harriman nel cult western di Bud Spencer e Terence Hill Lo chiamavano Trinità (1970), cui Granger si prestò con la consueta eleganza e notevole autoironia.

Negli anni Ottanta e Novanta, l’invecchiato Farley diradò notevolmente le sue apparizioni, dividendosi fra numerose serie televisive e qualche film. Nel 1995 prese parte al documentario di Rob Epstein e Jeffrey Friedman Lo schermo velato, che fu per lui l’occasione di parlare pubblicamente della propria omosessualità. La sua ultima interpretazione fu invece nella commedia The Next Big Thing (2001) di P.J.Posner, nella parte di un personaggio di origine italiana, quasi a omaggiare il suo importante contributo al cinema del nostro Paese: peccato che questo film, da noi, sia rimasto inedito.

Nel 2007, con l’aiuto del compagno Robert Calhoun, Granger pubblicò un’autobiografia, Include Me Out, in cui rivelava, fra le altre cose, di aver avuto numerosi flirt con varie star, fra cui Ava Gardner, Shelley Winters e Mina: un’uscita di scena degna di un gentiluomo decadente d’altri tempi, dopo un’esistenza vissuta con classe e discrezione.

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