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Protagonista alla recente notte degli Oscar, durante la quale si è aggiudicato tre statuette – miglior film, attore non protagonista e sceneggiatura non originale – Moonlight è il secondo lungometraggio del regista americano Barry Jenkins. Racconta la vita del giovane Chiron, afroamericano cresciuto a Liberty City, quartiere povero della periferia di Miami, dividendola in tre capitoli: l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta. Salutato dalla stampa internazionale come un capolavoro del cinema indipendente e snobbato da una minoranza della critica di settore, soprattutto europea, Moonlight è un’opera il cui reale valore cinematografico si situa probabilmente a metà strada tra i due giudizi estremi di cui sopra.

Nonostante sia un’opera dal budget risicato – si tratta del film meno costoso della storia ad aver vinto l’Oscar per il miglior filmMoonlight non ha l’aria da film indipendente, tanta è la cura formale con la quale è stato realizzato. Il regista pensa sempre a dove posizionare la macchina da presa e non rinuncia a numerosi vezzi estetici e sofisticati accorgimenti tecnici. Se si eccettua la breve scena iniziale dell’inseguimento, una delle poche girate con la camera in spalla e quindi molto mossa e vibrante, per il resto del film prevale l’utilizzo di una tecnica molto controllata, caratterizzata da immagini pulite sostenute da brevi, morbidi movimenti di macchina. Esemplare in questo senso la sequenza iniziale in cui Juan dà indicazioni al suo spacciatore, nella quale la macchina da presa volteggia ripetutamente attorno ai personaggi a mo’ di Brian De Palma in Body Double. O ancora quella in cui il giovane Chiron impara a nuotare, con la macchina da presa che galleggia dolcemente a filo d’acqua.

La forma rischia di prevalere sul contenuto, cosa che accade in più frangenti, e il coinvolgimento emotivo tende a scemare. Giungono in soccorso gli attori, tutti molto convincenti a cominciare dai tre interpreti di Chiron. Leggermente meno pregnante l’interpretazione di Mahershala Ali nel ruolo di un improbabile spacciatore gentiluomo che sparisce dopo quarantacinque minuti di film per una morte non spiegata né mostrata. Il suo personaggio non viene adeguatamente approfondito e risulta poco giustificata agli occhi dello spettatore l’influenza che ha sul protagonista e sulla sua vita futura. Piuttosto inspiegabile, quindi, la nomination (e poi l’Oscar) a lui attribuiti dall’Academy a discapito delle interpretazioni dei tre attori principali, ben più sottili e raffinate, tutte giocate sulla sottrazione, sul non detto e sulla gestualità del corpo. Lodevole anche la prova di Naomie Harris, giustamente candidata all’Oscar, unica tra gli interpreti a essere presente in tutte e tre le parti in cui il film è suddiviso.

Per questi e per altri motivi, qui non trattati per ragioni di spazio, Moonlight è un film sociale che non riesce mai a diventare politico e, nonostante le ingiustizie che mette in scena, giunge allo spettatore come un leggero soffio di vento e mai come un grido di rabbia. Niente di più di una leggera, piacevole brezza, proprio come quella che i due giovani protagonisti sentono sulla loro pelle, quando siedono di notte sulla sabbia, in riva al mare.

Scritto da Michele Boselli.

Michele B.Davide V.Edoardo P.
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