Sta già diventando un cult, inaspettatamente forse anche per il suo stesso autore che puntava al suo remake dell’argentiano Suspiria, cosa che tiene tutt’ora con il fiato sospeso tutti i fan del maestro del brivido. Stiamo parlando di Chiamami col tuo nome, il film di Luca Guadagnino senza Tilda Swinton, che nasce con un genesi in effetti curiosa. E vede un complesso gioco di ruolo tra Guadagnino stesso e il patinato regista inglese James Ivory che alla fine ha ceduto il passo al regista italiano, dopo aver steso la sceneggiatura tratta dal romanzo di André Aciman. Ora il film miete successi ovunque viene presentato, dal Sundance alla Berlinale, e sono anche arrivate quattro candidature agli Oscar.

Chiamami col tuo nome

Chiamami col tuo nome è un delicatissimo e sentito coming of age che coinvolge due ragazzi in una torrida estate afosa nel Nord Italia, negli anni ’80. Il diciassettene Elio, che trascorre le vacanze nella casa di campagna di famiglia, e l’assistente del padre archeologo, Oliver, un fascinoso ventiquatrenne americano. Cominciamo a sgombrare il campo da un primo fraintendimento. Anche se i due ragazzi sono alla prima esperienza gay, avendo fidanzate o flirt con ragazze, non c’è nessuna scoperta dell’omosessualità come ‘anomalia’, o come qualcosa di inaspettato di se stessi. Tutto avviene con naturalezza e spontaneità. Guadagnino tratta la sessualità come un qualcosa di assolutamente organico alla vita in quel particolare momento, poi, della fine della pubertà, evidenziato dal radersi i baffi da parte di Elio. Se non ci sono i nudi frontali maschili, come avrebbe voluto Ivory che in merito ha imbastito una nuova polemica, ci sono scene di masturbazione, feticismo, sperma trattati come un qualcosa di assolutamente normale, appartenente alla realtà quotidiana. La vera morbosità sarebbe stato di ometterli. E una buffa scena vede Elio masturbarsi con le note di Radio Varsavia di Franco Battiato, suggerendo l’assoluta indifferenza di chi vive l’esplosione dei sensi della vita, rispetto al contesto politico di uno dei drammi di quegli anni, la legge marziale in Polonia con i suoi ultimi appelli da dimenticare.

Guadagnino sceglie poi un attore, Timothée Chalamet, non particolarmente palestrato e non bellissimo, in modo da evitare i facili estetismi del caso e ad ascrivere la vicenda in un contesto di normalità. A essere bello e idealizzato è invece l’amico americano, Armie Hammer, scultoreo come le statue, gli oggetti del suo lavoro di archeologo. Quello che succede tra Elio e Oliver è semplicemente il classico flirt estivo, facente parte del vissuto di tutti noi. E Guadagnino sa raccontarlo con quel pathos delle cose, con quel senso effimero della giovinezza che appartiene a tutti coloro che vedono questi sconvolgimenti del corpo e dell’anima da età più o meno lontane. Sappiamo che un’estate è solo un briciolo della vita e che a ogni stagione estiva non potrà che succedere inevitabilmente un autunno. Sappiamo che quell’intensità dei sensi avrà durata breve, brevissima e diventerà presto nulla più che un dolce ricordo. E il finale, con quel dispiego pesante di digitale, non può che essere il naturale, malinconico punto d’arrivo, scandito nel film da una sorta di countdown nello spettatore. In questo senso il film evita la conclusione del libro che fa ritrovare i due in America, a distanza di anni, ognuno con la propria vita.

Chiamami col tuo nome

Grande cura del regista è la ricostruzione del contesto storico, il 1983, esibita certo a ogni scena ma proprio per questo evocativa, e probabilmente un amarcord, vista l’età del regista. Si varava il governo Craxi, uno dei più longevi della storia repubblicana, e i partiti, di cui si vedono manifesti elettorali, avevano quelle sigle, “pci psi, dc dc, pci psi pli pri”, come scherzosamente aveva messo in note Rino Gaetano. La rocambolesca fuga di Licio Gelli dal carcere svizzero occupava le discussione estive sui giornali. A ben vedere in quegli anni si ponevano le basi per quella che sarebbe stata l’Italia dei decenni successivi. Da Craxi, e Gelli, si arriva a Berlusconi, e Guadagnino inserisce anche il frammento di uno sketch dell’allora comico Beppe Grillo. Loredana Bertè e il tormentone estivo di Paris Latino dei Bandolero sono il prodotto del decennio del disimpegno e dell’edonismo reaganiano. E poi il Nesquik, la Fiat 128, la Bic a quattro colori: i feticci dell’epoca.

La grande capacità evocativa di Guadagnino si manifesta anche nel contesto geografico, cambiato rispetto al mare della Liguria del romanzo. Siamo nei luoghi dove abita il regista, la verde Lombardia con quel cielo di manzoniana memoria che dal confine con l’Emilia arriva alle montagne bergamasche, meta di un’escursione dei due ragazzi. I campi di mais di color verde intenso, i paesini con quei baretti dove, all’ombra di un grande campanile, si ritrovano gli anziani per giocare a carte. E torna tanto cinema in Chiamami col tuo nome. Dal Bertolucci di Io ballo da sola, al Pialat di Ai nostri amori. Ma anche con tracce di Teorema di Pasolini e di La prima notte di quiete di Zurlini. Un film molto semplice in definitiva, Chiamami col tuo nome, che conserva il sapore proustiano di Aciman e funziona come le madeleine. Guadagnino sa colpire, e sa colpirsi nei punti giusti.

Giampiero R.Giacomo B.
89