Edito nel 1947, La schiuma dei giorni di Boris Vian è un romanzo cult della letteratura francese, che fonde un’anima surreale sorretta da un forte sperimentalismo linguistico – erede dell’avanguardia surrealista e della patafisica di Alfred Jarry – a una concezione di stampo esistenzialista.

Da questo libro anarchico, strambo e geniale che Queneau definì “il più straziante dei romanzi d’amore contemporanei” è tratta l’ultima opera di Michel Gondry, il cui titolo, Mood Indigo, rende omaggio all’omonimo brano di Duke Ellington, jazzista amatissimo da Vian e molto presente nella colonna sonora del film. Terza trasposizione cinematografica del romanzo di Vian dopo quelle di Charles Belmont (La schiuma dei giorni, 1968) e di Go Riju (Chloe, 2000), Mood Indigo è un film coraggioso, complesso, polimaterico, non privo di difetti, ma degno di essere considerato come una delle opere più personali di Gondry.

Come già altri film del regista, Mood Indigo si avvale di sequenze girate in stop-motion, effetti digitali ed effetti meccanici. La trama, semplice e geometrica, ricalca molto fedelmente quella del romanzo di Vian, e può essere suddivisa nettamente in due parti di segno opposto.

Nella prima, in una Parigi onirica e retrofuturista, seguiamo la nascita e il coronamento della delicata storia d’amore di due personaggi dotati di un candore quasi adolescenziale: Colin (Romain Duris), uomo ricco e annoiato ma vorace di vita, e Chloé (Audrey Tautou), creatura dolce, fragile e stralunata. Accanto ai due troviamo una seconda coppia: Chick (Gad Elmaleh), migliore amico di Colin e fanatico collezionista delle opere di Jean-Sol Partre (Philippe Torreton), caricatura del famoso filosofo, e Alise (Aïssa Maïga). Nonostante qualche apparizione sinistra, in questa prima parte predomina la celebrazione dei piaceri della vita: l’amore, la cucina, la musica jazz. L’atmosfera è prevalentemente concitata, euforica, sognante.

La seconda parte rivela l’assurdo e il deforme che il velo dell’euforia nascondeva. La frenesia del vivere si rovescia gradualmente in senso di morte, il mondo sognante in universo distopico. Lo spartiacque è rappresentato dalla malattia di Chloé: una ninfea cresce nel suo polmone destro, condannandola a una lenta agonia. Parallelamente assistiamo al precipitare delle condizioni di vita di Colin, costretto ad affrontare i lavori più assurdi per poter pagare le cure di Chloé e circondarla di fiori freschi che rallentano la crescita della ninfea, e di Chick, vittima della sua folle mania collezionistica. Tutto si risolverà nel modo più tragico. L’atmosfera è prevalentemente grottesca, sardonica, allucinata.

La prima parte è quella in cui la consueta ipertrofia visiva di Gondry è più forte. Sullo schermo vediamo sfilare una serrata e frastornante baraonda di oggetti del quotidiano, animali e persone deformati in chiave surrealista: un’anguilla che esce dal rubinetto, un cuoco che vive dentro al forno e al frigorifero, delle scarpe animate, il pianocktail (uno speciale pianoforte che prepara dei cocktail quando viene suonato), le gambe dei protagonisti che si allungano durante il ballo come in un cartoon, una nuvola-navicella che trasporta Colin e Chloé sopra i tetti di Parigi, una pista di pattinaggio su ghiaccio animata da un DJ con una testa di corvo, una cerimonia nuziale celebrata da un prete che discende da uno shuttle, Jean-Sol Partre su un enorme elefante meccanico che si fa strada tra i fan urlanti (una delle scene migliori) e molto altro. Come un bambino innamorato dei propri giocattoli, qui Gondry sembra più interessato a trasporre fedelmente sullo schermo le infinite trovate surreali di Vian e a inventarsene di nuove, che a conferire armonia e calore al loro insieme. Così, se le singole sequenze sono per lo più riuscite, l’intero bricolage finisce per risultare sovraccarico e meno travolgente di quanto vorrebbe essere.

La seconda parte, visivamente più asciutta, sembra invece sorretta da un’urgenza artistica più profonda. La tensione si addensa attorno a due simboli di grande potenza emotiva: la ninfea che cresce senza tregua nel polmone di Chloé e l’appartamento dei due protagonisti che si stringe progressivamente attorno a loro e si fa sempre più buio. È questo il simbolo più scopertamente esistenzialista di Mood Indigo. I colori scompaiono del tutto negli ultimi venti minuti, soffocati da un angosciato bianco e nero (espediente semplice, persino scontato, ma molto efficace), e il film raggiunge il suo culmine visionario e cinematografico nella scena del grottesco funerale di Chloé.

L’interpretazione dell’intero cast attoriale, e di Romain Duris e Audrey Tautou in particolare, è esplicitamente stilizzata e antimimetica. Come nel romanzo di Vian, non c’è psicologia in Mood Indigo, ma soltanto riproduzione di comportamenti: i personaggi di Gondry sono figurine leggere, bidimensionali, quasi intercambiabili, in balia del loro dolce e crudele destino. Ed è proprio questa loro lievità a conferire al film una grande compattezza tragica.

Scritto da Thomas Mai.

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Giacomo B.
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